I miei viandanti

venerdì 26 febbraio 2010

Di ricette, baci e rimpianti

Mi piace andare al cinema.

Nonostante il grande televisore nuovo che troneggia in salotto e un catalogo di dvd d’autore imponente (ormai la tv chi la vede più?) ovviamente vedere un film a tutto schermo ha un altro fascino.

Mi piace andare al cinema, anche da sola.

Spesso, nei miei pomeriggi liberi, raggiungo il cinema qui vicino, una multisala che fa sempre film carini. Quando aprì, questo cinema trasmetteva per lo più pellicole commerciali, stile cinepanettoni e così via, poi i gestori devono aver capito che c’è un sacco di gente in giro che ama il buon cinema, e hanno cambiato decisamente genere.

Un paio di settimane fa sono riuscita a vedere Soul Kitchen, poco prima che lo togliessero dalla programmazione: ormai si deve tener conto che un film difficilmente regge più di tre settimane, due se ha poco successo, per cui bisogna sbrigarsi a vederlo, altrimenti si aspetta che esca in dvd.



Soul Kitchen è quello che annuncia la locandina: una commedia briosa e colorata, piena di personaggi un po’ folli e strampalati, ambientata in un ristorante sgangherato, in cui i sapori speziati della cucina mediterranea si mescolano ai colori grigi e spenti di una anonima e fatiscente periferia di Amburgo in una ratatouille saporita e piccante, il tutto condito da una colonna sonora frizzantina, un misto tra rock anni Settanta, musica greca, funky, disco e soul.
Molti dei foodblogger si sono cimentati nelle ricette del geniale e folle Birol (che finirà in un circo a fare il lanciatore di coltelli), piatti dai nomi strampalati come i protagonisti del film, tipo Festosa schiuma di Venere su un letto Soul di Uva passa e la Zuppa del Maestro di Agopuntura. Questa commistione tra cinema, ricette e blog sta diventando sempre più di moda, seguendo un filo che va da Chocolate al Pranzo di Babette fino ai recenti Julie&Julia e Ratatouille.

Poi sono andata a vedere Baciami ancora, visto che L’ultimo bacio, insieme a La finestra di Fronte, Le Fate Ignoranti e Pane e Tulipani è tra i miei film italiani preferiti (lo so, lo so che ammettere di non disprezzare Muccino fa poco intellettuale, ma la malinconia di quel film, soprattutto della parte finale, mi ha fatto piangere come una fontana, che ci posso fare?).



Tra l’altro ci sono anche degli attori che mi piacciono in maniera particolare, come Claudio Santamaria e Pierfrancesco Favino, per cui sono andata a vederlo volentieri. Devo ammettere che era difficile emulare il primo, ed infatti siamo abbastanza lontani dalla freschezza del precedente. Ci sono dei film che ti colpiscono per la autenticità di quello che raccontano: forse perché toccano delle corde sensibili dentro di noi, perché raccontano di qualcosa che abbiamo provato, perché riusciamo ad immedesimarci con i protagonisti, ci specchiamo nei loro drammi e nelle loro emozioni.

Però il film non ha toccato quasi niente, dentro di me. La recitazione è sempre un po’ sopra le righe, sul filo dell’isteria, e alla fine risulta ripetitiva, i tira e molla tra i protagonisti delle storie sono leggermente sfiancanti, tutta questa generazione di quarantenni ( cioè la mia) troppo incasinata, urlante e nevrotica per essere realistica.

E poi, dico, ma avete notato l'ambiente in cui si muovono tutti i protagonisti?
Case grandi con stanze ampie, finestre enormi, mobili chic, quadri d’autore, della serie anche i ricchi piangono…ce ne fosse uno che vive in un bilocale in periferia, con una utilitaria vecchiotta parcheggiata sotto casa, mobili d’Ikea e le mattonelle della cucina un po’ sbreccate e come problema maggiore quello di arrivare a fine mese… scusate se mi fanno poca pena, ma i veri problemi sono altrove, i veri guai della vita hanno ben altro colore e consistenza, rispetto a questo mondo patinato che ci descrive Muccino, con i suoi quarantenni arrabbiati e confusi perché la vita non è una favola meravigliosa, un mondo dorato in cui tutti sono belli e felici, l’amore è eterno e la famiglia è l’immagine bucolica stile Mulino Bianco.

Il mondo è un po’ più sporco e cattivo di come ce lo descrive il regista.

Provate a guardarvi un film di Ken Loach (In questo mondo Libero, Bread and Roses) o di Mike Leigh (quello di Segreti e Bugie), storie di persone vere, che ti colpiscono allo stomaco come un macigno, che ti lasciano dentro il sapore amaro della disillusione, della sconfitta, di chi riesce a malapena a sopravvivere, e magari nonostante tutto riesce ancora a cogliere la poesia, anche in un grigio condominio di cemento disperso in una squallida periferia industriale.

Lo stesso discorso vale per La prima Cosa bella , visto appena due giorni fa. Non amo Paolo Virzi in maniera viscerale, ma ho apprezzato moltissimo alcuni suoi film, in particolar modo Tutta la Vita davanti, forse il suo lavoro più maturo e arguto.
Questo mi ha lasciato un pizzico di irresolutezza, anche se gli ingredienti per piacermi ci sarebbero tutti.



Accorsi i due figli al capezzale dalla madre morente, la storia si snoda tra i colori caldi dei primi anni settanta filtrati dai loro occhi di bambini e i giorni nostri, giorni in cui le cicatrici e le traversie del passato pesano ancora sulle vite dei protagonisti e ne determinano il corso: persone ferite e sole che non riescono a perdonare e ad elaborare avvenimenti dolorosi come la vita disordinata, errabonda al seguito di una mamma bellissima, affettuosa e immatura, persa tra il rincorrere il sogno di fare l’attrice ed una squallida realtà fatta di alloggi di fortuna, espedienti per sopravvivere e una girandola di amanti, in fondo tristi anche loro, da cui si fa mantenere.

Donna fragile, ingenua e forte insieme, da una parte vittima di una società ipocrita che non le perdona di cercare una vita altra, di rifiutare il suo ruolo di moglie devota e sottomessa ad un marito violento per inseguire i suoi sogni, ed insieme carnefice, capace di far subire ai figli la mancanza del padre, di una famiglia stabile, di una vita piena di amore ma non di certezze.

L’imminente morte della madre rimette in gioco tutto, rimorsi e rimpianti, dolori che si pensavano dimenticati ed invece sono solo assopiti,e la malinconia dei ricordi si mescola alla commedia con un pizzico di agrodolce, di tristezza ed ironia incarnati al meglio da un grandissimo Valerio Mastandrea, attore che si sta ritagliando sempre più un ruolo particolare nel cinema italiano per la scelta dei personaggi e la profondità, dolorosa e lieve insieme, con cui li interpreta.
Anche i due piccoli attori che interpretano i figli da piccoli sono bravissimi, raro trovare bambini che recitano con tanta naturalezza dei ruoli così difficili, al contrario di tanti piccoli attori saccenti e artefatti che popolano le nostre televisioni.

Però, come ho detto prima, la commozione è stata minore di quanto mi aspettassi (sono andata munita di fazzoletti, secondo le indicazioni della mia amica Marta): forse la recitazione di alcuni personaggi che non mi ha convinto del tutto (per esempio l’attrice che interpreta la madre da giovane, sempre un po’ sopra le righe, troppo svampita per essere vera), o personaggi di contorno poco caratterizzati, oltre ad un salto temporale eccessivamente ampio tra una scena e l’altra, i bambini diventano improvvisamente adolescenti fatti, senza raccontarci quello che è successo nel frattempo.

Insomma, è mancato un pizzico di commozione più profonda che non avrebbe guastato…

Aspetto le vostre opinioni in merito, voi che ne pensate?

martedì 23 febbraio 2010

Amore e odio per l'inverno



Io non odio l’inverno in sé: in fondo, magari meno che  altre stagioni più piacevoli, anche l’inverno ha degli aspetti affascinanti: ad esempio non mi dispiacciono quelle giornate cristalline, in cui i venti di tramontana puliscono il cielo da qualsiasi velo e lo rendono sfavillante, di un turchese intenso, luminoso, come raramente si può vedere in estate.

Non mi dispiacciono quei bruni pomeriggi casalinghi, passati sul divano con una bella tazza di the forte e caldo, i gatti vicini vicini (loro sì che adorano l’inverno, visto che stanno sempre al calduccio), a leggere un bel libro sotto la lampada, col rassicurante ronzio dei termosifoni in sottofondo e il profumo vanigliato di un dolce che si cuoce nel forno.

Quello che detesto dell’inverno non è  il freddo, anche se a Roma di vero freddo non si può proprio parlare, né l’oscurità che cala così in fretta, che invoglia a tornare a casa a metà pomeriggio mentre l’estate puoi andare in giro fino all’ora di cena.
Quello che detesto è la pioggia incessante che ingrigisce i giorni, che rende l’aria umidiccia e densa, che allaga strade e marciapiedi in pozzanghere enormi e fangose, che ti costringe a girare perennemente con l’ombrello nella borsa, perché ti sorprende all’improvviso, neanche fossimo a Londra. Niente mi deprime di più che alzarmi e vedere il cielo grigio e basso, le nuvolaglie plumbee che si addensano minacciose, i panni stesi fuori gocciolanti e le previsioni meteo che non danno scampo.
Sono diventata metereopatica, oppure lo sono sempre stata?

E’ un po’ di tempo che seguo quotidianamente le previsioni meteo, e sono arrivata alla conclusione che, per la maggior parte, sono abbastanza deprimenti, quando ci prendono, figuriamoci quando toppano clamorosamente.

C’è un sito meteo piuttosto conosciuto, lo frequento giornalmente perché sembrerebbe quello più preciso, che ogni tanto rifila delle sòle clamorose: siccome preferisco fare le mie passeggiate fotografiche non dico sotto un sole sfavillante ma neanche sotto il diluvio, di solito guardo le previsioni per fare i miei programmi nei giorni di riposo.
Una sera vado a vedere le previsioni per la mattina successiva, avevo progettato di andare a Palazzo Altemps, e vedo che il sole avrebbe illuminato tutta la giornata, senza neanche l’indicazione di una nuvoletta maligna ad oscurarlo. La mattina mi alzo, tutta pimpante, e dalla finestra vedo un panorama desolante di nuvole dense di pioggia, i marciapiedi bagnati come avesse piovuto tutta la notte. E il mio sole sfavillante, dov’era finito?

Sono andata a vedere sullo stesso sito, per avere la rassicurazione che quel fronte minaccioso di temporale in arrivo fosse solo un’illusione, pronta ad evaporare al calore del mattino, e invece le previsioni della giornata davano pioggia battente e temporali fino alla settimana dopo. Capisco che le previsioni meteo indichino solo delle probabilità, e che azzeccarci da qui ad una settimana non sia possibile, ma toppare clamorosamente le previsioni per le 12 ore seguenti mi pare davvero troppo! Mi è venuto il dubbio che siano completamente fasulle, e che ci sia un omino che ogni tanto guarda fuori dalla finestra e aggiorna il sito, sull’estro della creatività e di quello che vede sopra la sua testa.



Un’altra cosa che odio dell’inverno sono le cataste di panni da lavare che si accumulano nel cesto, e quei pochi che riesco a lavare, tra un temporale e l’altro, cominciano a fare il gioco dell’oca dai fili fuori al termosifone, dal termosifone ai fili, nella speranza che prima o poi perdano quell’umidiccio residuo, oppure se ne stanno malinconicamente stesi fuori per giorni, aspettando che prima o poi la smetta di piovere, e quando li tiri dentro hanno preso quell’odore di muffa che non se ne vuole più andare, a meno di non rilavare tutto e ricominciare daccapo.

Oppure i mucchi di maglioni da lavare a mano, che si accumulano minacciosi (non i miei, che vengono buttati in lavatrice senza alcun riguardo e vengono fuori benissimo): mi chiedo chi siano i creatori malevoli di questi maglioni delicati, da trattare con tutti i riguardi; non li puoi mettere in lavatrice perché li tiri fuori a brandelli, e quando li lavi a mano devi farli gocciolare in piano, e dopo due giorni sembrano bagnati come prima. Poi li stendi con tutte le cure possibili sui termosifoni, poi li devi stirare, e comunque, dispettosamente, si infeltriscono, si allargano, si restringono a dimensioni lillipuziane, perdono la forma oppure diventano degli straccetti inguardabili, tanto che sembra tu li abbia presi a a martellate in un impeto distruttivo ( e qualche volta ne avrei pure voglia).

Oppure dover uscire a fare la spesa sotto la pioggia battente, buste, pacchi e carrelli colmi di cibo, e tu che ti districhi tra l’ombrello gocciolante, il vento che dispettosamente ti tira giù il cappuccio, le chiavi strette tra i denti, e automobilisti educati così e così che ti passano vicino a velocità supersonica, per il puro piacere di centrare la pozzanghera e inondarti fino alla punta dei capelli.

Mi sento piuttosto pessimista, se non finisce questo inverno antipatico e umido giuro che mi metto ad urlare!


E dopo questa serie di lamentazioni, veniamo a qualcosa di più piacevole.
Una delle cose che l’inverno permette di fare,  l’estate molto meno, è accendere il forno e magari cuocere una bella pagnotta, anche se la lievitazione, in giornate umide e fredde, deve essere al riparo da correnti d’aria, altrimenti puufff, si ammoscia tutto e buonanotte.

Questa bella pagnotta è stata presa dal Volume Pane, pizze e torte salate dell’Enciclopedia della Cucina di La Repubblica, sotto il nome di Pane Cafone, o Contadino. Non so perché si chiami così, sicuramente non è per la sua educazione o per i suoi modi, perché si tratta di un pane buonissimo, con la crosta dura ma la mollica morbidissima.

Io l'ho fatto lievitare dentro una teglia da 26 centimetri ed è cresciuto moltissimo, la prossima volta magari faccio due pagnottelle, in maniera da farlo venire meno mollicoso. Un'altra accortezza è che, siccome l'impasto cresce moltissimo, è meglio non lasciarlo nel cestello per un'altra mezz'ora, come ho fatto io. E' lievitato talmente tanto da invadere tutta la mdp, incollandosi ai bordi e al coperchio, per cui fate l'impasto e poi toglietelo subito.




Pane cafone, con la macchina del pane

700 Manitoba
150 semola rimacinata di grano duro
500 ml acqua
2 cucchiai olio
1 cucchiaio aceto
1 cucchiaino e mezzo sale
1 cucchiaio zucchero
1 bustina lievito secco da 7 grammi Mastrofornaio

Mettete nel fondo del cestello tutti i liquidi, sopra le farine mescolate.

Al centro lo zucchero e il lievito secco.

Al lato fate uno spazio per il sale, in maniera che non tocchi il lievito.

Fate partire il programma Impasto, circa un'ora e trenta.

Finito il tempo, togliete l'impasto dal cestello, stendetelo sulla spianatoia infarinata con semola, quindi fate le pieghe (io le faccio a busta di lettere, poi ripiego di nuovo nello stesso modo e capovolgo il tutto, in maniera che le pieghe siano sotto), oppure fate due pagnottelle, se le volete meno mollicose e più croccanti.

Mettete l'impasto sulla carta forno spolverata di semola, quindi in una teglia di 28/30 centimetri di diametro, fate dei tagli in maniera da favorire la lievitazione e spolverate ancora con semola.
Coprite con un panno, e mettete nel forno appena tiepido con una ciotola d'acqua per circa un'ora (il mio era lievitato talmente tanto che non l'ho tenuto le solite tre ore, temendo che avrebbe invaso tutto il forno, tipo blob inarrestabile).

Trascorso questo tempo, tirate fuori il pane sempre coperto, accendete in forno e fatelo riscaldare per circa 20 minuti, con il pane al calduccio sopra ai fornelli.

Infornate a 200 gradi, sul secondo ripiano dal basso, per 40 minuti.
Trascorso questo tempo, toglietelo dalla teglia e reinfornatelo capovolto altri 10 minuti, per farlo colorire anche sopra. Si conserva benissimo per giorni, ed è perfetto per farci i panini.

sabato 20 febbraio 2010

Ancora di Viaggi e Dolci



Le fasi più critiche dei preparativi del viaggio sono state superate brillantemente: prenotazione volo e albergo, dopo di ciò posso dire di essere decisamente a buon punto. Mi manca solo di procurarmi una buona cartina della città, tracciare gli itinerari sulla Guida del Touring (è la migliore, non c’è storia), informarmi sugli spostamenti da e per l’aereoporto, ed aspettare fino a maggio, che forse è la cosa più difficile.

Io adoro il treno, per la sua tranquillità, per il fatto di essere comodo da prendere, per il biglietto che di solito non presenta grandi problemi, se fatto con molto anticipo: si arriva comodamente alla stazione, ci si accomoda nel proprio posto, con un buon libro nello zaino, l’mp3 con musica affascinante, un buono spuntino per la cena, magari un dolcetto, e ci si lascia cullare fino a destinazione, osservando trasognati il paesaggio che sfreccia veloce,tra campi, boschi, paesi, casette linde con giardini e piccole stazioni.

Di solito, di prima mattina, mentre mangio qualcosa di dolce per colazione e cerco di assumere un aspetto presentabile dopo una notte insonne (mai dormito in treno, tranne durante l’Interrail della Scandinavia: ma in quel caso eravamo talmente tanto stanche, con una media di viaggi notturni in treno da stramazzare chiunque, che riuscivamo a dormire come ciocchi nelle posizioni più improbabili), si cominciano a vedere graziosi paesini in mezzo a viottoli di campagna, casette con i grigi tetti di ardesia, campanili che svettano in mezzo a paesaggi verdi e boscosi, e allora capisco di essere quasi arrivata, la bella Parigi non è lontana!

Mi è capitato spesso di incontrare persone piacevolissime con cui chiacchierare amabilmente: il primo anno che sono andata a Parigi sono capitata con due ragazze, di qualche anno più giovani di me.
Una quasi laureanda era andata a fare un corso di francese della durata di un mese, si era talmente innamorata della città che aveva deciso di fermarsi altri tre mesi, per cui era tornata a casa a prendere altri vestiti. Era riuscita a trovare una sistemazione come ragazza alla pari presso una famiglia, la mattina avrebbe proseguito i corsi di lingua e il pomeriggio avrebbe lavorato con i due figli della coppia.

L’altra ragazza era della provincia francese, ma studiava alla Sorbona, e stava tornando da Roma, dove in tre mesi aveva imparato benissimo l’italiano, appena velato da una graziosa erre moscia. Mentre io le parlavo del mio amore viscerale per la Francia, invidiando il suo appartamentino da studentessa nella caratteristica Rue Moffetard, nel Quartiere Latino, non lontano dal Pantheon, lei invece mi raccontava delle passeggiate in bicicletta la domenica sull’Appia Antica, dei musei che aveva visto, delle bontà che aveva mangiato, e allora ho capito quanta fascinazione questa città abbia per i giovani stranieri, che sicuramente la apprezzano e la conoscono meglio di tanti romani che ci sono nati.
Aveva riportato con sé una busta piena di specialità italiane da far assaggiare alla sua famiglia, e si capiva benissimo che, se avesse potuto, avrebbe preso il primo treno per tornare indietro.

L’aereo è più veloce, ma più ansiogeno: gli aeroporti di solito sono lontani dalla città e un po’ fuori mano, il viaggio rapido ma poco poetico, sali in un freddo aeroporto e scendi direttamente in un altro paese, senza aver gustato l’attesa, senza averne assaggiato le periferie e i paesaggi che scivolano lontani, mutano di tono e di colore, si fanno stranieri, nuovi e sconosciuti.

E poi, alla faccia di quelli che sostengono che ormai conviene andare in aereo perché è più economico, ho davvero stentato a trovare un volo a prezzo accettabile e che non partisse ad orari impossibili.

Certo, ci sono le compagnie Low cost, ma provate voi ad arrivare col trasporto pubblico ad un piccolo aeroporto fuori mano e non collegato al meglio, a tarda sera, oppure prima dell’alba!
Ho dovuto escludere per questo motivo tutte le compagnie minori, ripiegando sull’Iberia, anche perché Siviglia non è una tratta con molte possibilità, i voli sono pochi e quasi tutti non diretti, con scalo a Madrid.
Ed in agenzia ho scoperto che, è vero, ci sono dei voli che costano sui 110 euro (a tratta) ma sono per l’appunto ad orari scomodi, e non si può scegliere l’orario di tutti e due, ma ci sono dei pacchetti Andata e Ritorno con combinazioni obbligate: per cui, l’alternativa era arrivare a tarda sera a Siviglia (arrivare di sera, da sola, in una città mai vista, senza nessun autobus per arrivare in centro) e tornare comodamente, oppure andare comodamente e partire da Siviglia alle 7 del mattino, il che significa arrivare in aeroporto alle cinque, cioè alzarsi alle quattro di notte e pagare un costoso taxi per arrivarci.

Scorporare le due tratte, partendo ad orari decenti sia all’andata che al ritorno, è impossibile, a meno di non prendere due voli separati, col risultato che il prezzo finale supera i 500 euro…no dico, ma siamo impazziti? Con la stessa cifra ci arrivo a New York, altro che Siviglia…stavo quasi per ripiegare su una città meno difficoltosa da raggiungere, quando alla fine siamo riusciti a trovare una offerta decente, con partenze dignitose, ad una cifra abbordabile!

Per quanto riguarda l’albergo, lavoro appunto in una catena alberghiera spagnola, per cui trovarlo non è stato difficile, è un quattro stelle a pochi minuti di cammino dal centro ( per una volta, invece che lavorare dietro le quinte, mi godrò tutte le delizie di un albergo di lusso).


Nel frattempo, visto che maggio è ancora lontano, anzi, vedendo il cielo cupo e il clima rigido e piovoso di questo periodo sembra quasi un miraggio, riscaldiamoci con un delizioso Plumcake con farina integrale, zucchero di canna, ricotta, banane e pinoli. Ero partita da una ricetta di un libro, poi ho alterato tutto, facendo di testa mia.
Il risultato è stato insolito ma ottimo, morbidissimo, il sapore delle banane che si mescola benissimo allo zucchero di canna e al sapore particolare della farina integrale.



Plumcake Integrale con Ricotta, Banane e Pinoli

stampo da Plumcake da 30 centimetri:

300 grammi farina integrale
175 grammi zucchero di canna
1 uovo intero
3 cucchiai succo limone
Mezzo bicchiere di latte
Mezzo bicchiere di olio
200 grammi di ricotta
2 banane mature
40 grammi pinoli
1 cucchiaino di lievito per dolci
1 cucchiaio di Strega (facoltativo)

Frullate l’uovo con la frusta elettrica assieme allo zucchero, aggiungendo il limone, il liquore, olio e latte, la ricotta ben scolata, montando bene il composto.

A questo punto mescolare la farina e il lievito, ed aggiungere all'impasto.

Mescolare le banane schiacciate o fatte a tocchetti, quindi versare nello stampo imburrato ed infarinato, e cospargere di pinoli.

Infornare nel forno già caldo a 180 gradi sul secondo ripiano dal basso, per un’ora.

Togliere dallo stampo una volta freddo, cospargere di zucchero a velo.

lunedì 15 febbraio 2010

Pandolce al miele



Archiviata la neve come una mera bizzarria meterologica, siamo arrivati anche alla fine di Carnevale: un Carnevale mi pare piuttosto sottotono, quest'anno.
Non è raro vedere mascherine variopinte che girano per le strade, coriandoli e stelle filanti che colorano gli angoli dei marciapiedi. Forse al centro si saranno anche create quegli assembramenti spontanei di maschere, girotondi e giochi, l'orgoglio di andarsene a spasso con un bel costume nei luoghi più belli di Roma, Piazza Navona, Villa Borghese, Via Nazionale, ma quest'anno non ho visto niente, almeno nel mio quartiere.
Forse il freddo inusuale, una pioggia gelida e insistente che ha ingrigito tutta la settimana, non so...sembra tutto fuorchè Carnevale!





Ieri sera abbiamo festeggiato San Valentino: in realtà è una festa che sia io che Luca abbiamo sempre snobbato, mai festeggiata da che stiamo insieme, e non è poco.
Già l'anno scorso ci siamo decisi ad uscire, tanto per mangiare una pizza, e visto che non usciamo molto spesso siamo usciti anche quest'anno, aspettandoci di trovare una folla incredibile di coppiette felici che invadevano ristoranti e locali.
Sarà perchè la pizzeria del quartiere è in posizione un po' defilata, ma abbiamo tranquillamente trovato posto, senza prenotare. Abbiamo mangiato una pizza decente, un vassoio di patatine ( patate vere, tagliate tonde e sottili), bevuto una buona birra e una Coca cola.
Dopo un'oretta eravamo già a casa, festeggiamento terminato, e buonanotte a tutti!



Sul Volume Pane, Pizza e Torte salate dell'Enciclopedia della Cucina di La Repubblica ci sono anche dei Pandolci, piuttosto interessanti: questo potrebbe essere chiamato anche Plumcake, è solo più consistente di un plumcake normale, l'impasto è sodo, impossibile da lavorare con lo sbattitore elettrico a fruste: io ho usato i ganci a spirale ed è venuto benissimo, perchè la consistenza è più soda di un normale ciambellone, e ricresce molto quando si cuoce (praticamente raddoppia di volume durante la cottura).

Per quanto riguarda il miele, ho fatto ad occhio: nella ricetta originale dovevano essere solo 100 grammi, ma credo di aver abbondato, e di conseguenza ho aggiunto (invece che 2 dl di latte, che mi sembravano troppi) solo 80 ml di latte, perchè la consistenza del mio impasto era identica a quella delle foto del procedimento sul libro: in pratica non si può versare nello stampo, va messo a cucchiaiate e poi spianato.
E' un dolce dal sapore decisamente rustico, il miele si amalgama benissimo con le nocciole e le mandorle, morbido ma consistente.




Pandolce al Miele, Mandorle e Nocciole

Stampo da Plumcake da 30 centimetri

2 uova grosse
120 grammi zucchero
300 grammi farina 00
80 grammi burro
150 grammi miele
latte (80 ml circa)
100 grammi tra nocciole e mandorle sgusciate
un pugno di uvetta
1 bustina di lievito per dolci
granella di zucchero per decorare


Frullare la frutta secca, senza ridurla in polvere, deve rimanere a granella.

Nella ciotola mettere la farina mescolata al lievito, al centro le uova, lo zucchero, e aggiungere il burro morbidissimo, quasi sciolto.

Cominciare ad impastare con i ganci a spirale, quindi aggiungere il miele e il latte, fino ad ottenere un impasto più sodo (tipo frolla all'olio) di un ciambellone normale.

Mescolare con un mestolo di legno l'uvetta e la frutta secca all'impasto.

Imburrare ed infarinare lo stampo, mettere l'impasto a cucchiaiate (lo riempirà a metà) e spianarlo bene. Cospargere con la granella di zucchero.

Metterlo nel forno a 180 gradi, sul secondo ripiano dal basso, per 50 minuti, quindi spegnere il forno e lasciarlo altri 10 minuti al caldo, per farlo asciugare.

sabato 13 febbraio 2010

La Nevicata del '72



Ieri mattina sono uscita sotto un cielo chiaro, nonostante fosse ancora notte. Le previsioni annunciavano neve, dopo le sette: le abbiamo lette sghignazzando, visto il clima caldo e piovoso degli ultimi giorni.

Poi, a giorno fatto, i primi fiocchi, grandi, leggeri, il cielo di un candore innaturale, un'aria gelida odorosa di neve, guardavamo increduli i prati diventare candidi, i rami degli alberi piegarsi sotto uno strato pesante, e continuava a fioccare, impietosa, mentre tutta la città impazziva, il raccordo intasato, automobili bloccate in salita, notizie allarmanti da parenti e amici, un rimbalzare di notizie preoccupate, tutti che si domandavano ansiosi come avrebbero fatto a tornare a casa.

Ha continuato fino all'ora di pranzo, e noi continuavamo ad osservare il cielo che non prometteva nulla di buono, i tetti sempre più bianchi, poi i fiocchi si sono trasformati in nevischio, quindi in pioggia sottile, e i pochi centimetri sulla strada hanno cominciato a sciogliersi, fino a ridursi a pochi mucchietti sparsi, e presto si sono liquefatti anche quelli. Quando siamo tornati a casa, a metà pomeriggio, sembrava quasi impossibile che una città intera fosse impazzita a causa di cinque centimetri di neve, ma tant'è...

A Roma le nevicate degli ultimi cinquant'anni si contano sulle dita di una mano, al massimo di tutte e due. La neve è un evento talmente raro, improbabile, che tutti ce le ricordiamo come fosse ieri.
La più eclatante fu quella dell'85, un 6 gennaio...me lo ricordo benissimo perchè ero stata invitata ad una festa a casa di una mia amica, e per l'occasione mi cimentai in una torta al cioccolato, torta che purtroppo non arrivò mai a destinazione.

La città, alla prima spruzzata di neve, si paralizza, figuriamoci con una nevicata abbondante come quella: tutto si fermò per una settimana, scuole, uffici, mezzi pubblici...era bellissimo andarsene in giro per le strade imbiancate, deserte, coi mezzi di fortuna che si riusciva a rimediare (tipo scarpe da ginnastica e tuta, essendo assolutamente non attrezzati per tale emergenza).
L'anno successivo ne fece un'altra clamorosa, mi ricordo di esser salita al Gianicolo a piedi, faticosamente: Villa Sciarra era chiusa, ovviamente, ma dalle cancellate si offriva gli occhi una visione fiabesca, irreale. Il giardino era completamente coperto da una coltre imponente di neve, una neve bianchissima, intatta, un silenzio ovattato che avvolgeva ogni cosa, i maestosi alberi, i viali deserti, le fontane con l'acqua gelata.

Avevo delle bellissime fotografie di quella villa innevata ma al momento non le trovo, che peccato. Mi ricordo, sempre in quei giorni, delle passeggiate con le mie amiche Pina e Teodora, assieme al mio cagnolino Golia, un meticcio di taglia minuscola (un incrocio di Yorkshire) che non riusciva a camminare nelle neve, più alta di lui. L'avevo messo in uno zaino e me lo portavo a spalla, e lui curiosissimo annusava l'aria fredda e odorosa, e osservava tutto, dal calduccio del suo mezzo di trasporto.



In queste foto c'è la nevicata del 1972: siamo sempre sul Gianicolo, ed io indosso un cappottino marrone col colletto di pelliccia cucito da mamma, assieme al colbacco e al manicotto appeso al collo, tipo piccola russa...non ero un amore?

mercoledì 10 febbraio 2010

Pane Integrale di Farro e Segale


Sono in preda ad un raptus panificatore, questo è certo.

Ormai la mdp è messa in uso a tempo pieno,ho il freezer pieno zeppo di pane affettato, prima o poi dovrò fermarmi perché non facciamo in tempo a consumarlo tutto. E’ che i tipi di pane sono così tanti, e tutti particolari, le ricette si accumulano, la curiosità spinge a fare ricerche, a comprare e sperimentare nuovi ingredienti, nuove farine.
Sono andata a spulciare sugli scaffali dei supermercati, ma oltre ad alcune Farine del Mulino Spadoni non ho trovato nient’altro, neanche quella integrale, che invece ero curiosa di usare. Per fortuna la Manitoba ormai si trova quasi dappertutto, anche ai supermercati più pulciosi, ma alla fine, gira che ti rigira, sono sempre quelle, puoi variare le dosi.

Allora sono arrivata fino a Naturasì, mi sta vicino casa ma in realtà non ci vado mai. E qui ho trovato due scaffali pieni di farine, di tutti i tipi: mi sono persa almeno un quarto d’ora per rimirarmele tutte! Non solo hanno quelle di farro, segale, riso, Kamut (anche in versione integrale) ma ci sono addirittura diverse marche di ognuna. Certo, i prezzi sono molto più alti rispetto alle farine normali, ma neanche tanto rispetto alle farine particolari in vendita al supermercato, ed in ogni caso questo tipo di pani sono molto costosi anche in panetteria, vale comunque la pena farseli da soli.

Alla fine, dopo lunga meditazione, mi sono decisa per la farina di grano integrale, di segale integrale (quella che ho comprato in Trentino era normale), di farro integrale, tutte rigorosamente bio.

A me piace quello nero, che vengono in tocchi rettangolari a fette già tagliate, del peso specifico di una tonnellata per centimetro quadrato, scuro, pastoso, mi piacerebbe molto rifarlo e allora  ho provato una ricetta sperimentale.

Il primo esperimento è stato un pane totalmente integrale, di farro e segale, senza alcuna aggiunta di Manitoba: ho fatto l’errore di lasciarlo lievitare liberamente, ed è venuto uno sfilatino lungo e piatto, della consistenza di una pietra. Sapore buono, ma mollica densissima, veramente troppo duro. Mi piace la crosta e non la mollica troppo sofficiosa, ma quando è troppo, è troppo…

Allora ho aggiunto della Manitoba, per favorire un minimo di lievitazione, e l’ho cotto nello stampo da Plumcake, in maniera che crescesse in altezza e non in larghezza. L'odore del farro e della segale è totalmente diverso da quello delle altre farine, devo dire che è piuttosto stuzzicante, mentre si cuoce nel forno.

Quando l’ho tagliato, la crosta era piuttosto consistente, ho pensato ad un altro tentativo fallito, ed invece la mollica, pur compatta, è riuscita morbida: assomiglia in qualche modo al pane nero di segale che si compra al supermercato, quello tedesco, devo dire che non mi è dispiaciuto affatto. Ho provato a congelarlo perchè la crosta tende ad indurirsi col passare delle ore: l'ho tagliato a fette, e quando si scongela non ha neanche bisogno di essere riscaldato, rimane morbido anche così.
La mattina con un velo di golosa marmellata fatta in casa, non è davvero niente male…




Pane Integrale di Segale e Farro
con la macchina del pane

300 segale integrale
150 farro integrale
150 Manitoba
350 ml acqua
1 cucchiaio miele
1 cucchiaio olio
1 cucchiaio zucchero
1 cucchiaino abbondante di sale
Lievito 7 grammi Mastrofornaio
della semola per spolverare

Mettere nel cestello della macchina del pane l'acqua (è abbondante perchè sono delle farine che ne assorbono parecchia), il miele, l'olio.
Mescolare le tre farine e aggiungerle nel cestello.

Al centro aggiungere il lievito, quindi lo zucchero e in un angolino il sale.

Impostare il programma Impasto, un'ora e trenta.

Lasciare ancora una mezz'ora nel cestello, poi togliere l'impasto, che rimane un po' colloso, sgonfiarlo sulla spianatoia. Foderare uno stampo da plumcake della lunghezza di 30 centimetri, mettervi la pasta, spolverarla di semola, e praticare dei tagli obliqui, per favorire la lievitazione.

Coprire con un panno umido, mettere nel forno tiepido per 3 ore.

Infilare nel forno caldo a 200 gradi per 30 minuti circa, sul secondo ripiano dal basso, quindi toglierlo dallo stampo e metterlo sulla griglia altri dieci minuti, rivoltato, per farlo cuocere bene anche sopra.

venerdì 5 febbraio 2010

Ricette di Carnevale



Ogni mamma ha le proprie ricette per Carnevale, che di solito esibisce alle feste dei bambini che si fanno a casa o scuola, quelle riunioni di pargoli tutti mascherati e scatenati, con coriandoli e stelle filanti che si infilano dappertutto e che continuano a spuntare fuori anche dopo giorni che è finita la festa: per i bimbi è un divertimento incredibile, per le mamme di solito è un incubo, soprattutto per quelle coraggiose che fanno le feste a casa loro, mia madre ne sa qualcosa.





(in queste foto sono, rispettivamente: la fatina in rosa, Cappuccetto Rosso, e quella col vestito a fiori con la cuffietta, ufficialmente Beth delle Piccole Donne. Quella vestita da Spagnola è la mia amica Sabrina, che sicuramente si farà un sacco di risate rivedendole...)

Ovviamente le frappe, o chiacchiere, vanno per la maggiore, e ognuno ha la ricetta sua, morbide e burrose oppure croccanti e scrocchiarelle, come quelle che ha fatto sempre mia madre.

Già solo farle, stendere le lunghe sfoglie sulla tovaglia infarinata, tagliarle con la rotella e fare le forme a nodo o a nido di rondine, già quello è un divertimento, e poi vederle friggere nell'olio bollente, cospargerle di miele dolcissimo e di zucchero semolato, e poi addentarle ancora calde calde ecco, quella è la beatitudine.
Le castagnole no, quelle non le abbiamo mai fatte. Ci ho provato solo una volta e sono venute una schifezza, altro che morbide e soffici, avrei potuto giocarci a ping pong...
Un'altra ricetta caratteristica di casa mia erano i ravioli con la ricotta: quelli non li avevo mai fatti, ho chiesto la ricetta e la descrizione è stata, come sempre, piuttosto vaga: per la sfoglia prendi due uova, ci mette lo zucchero, un po' di farina, un po' di liquore...mamma fa tutto a memoria, io ho cercato di rendere la ricetta un po' più precisa, anche se sulla farina alla fine sono andata a occhio, perchè non riuscivo a rendere la sfoglia lavorabile, per non farla attaccare al mattarello.

Mamma infatti la stende sottile, con la macchina per fare la pasta, sempre la stessa macchinetta da quasi quarant'anni...io non ce l'ho, e tirarla sottile col mattarello è meno facile, quindi le dosi della farina prendetele con le molle, se la tirate con la macchina ve ne occorrerà sicuramente meno.
I ravioli andrebbero fatti a forma di mezzaluna e poi fritti...io li ho fatti tondi perchè avevo un tagliapasta tondo che volevo sperimentare, e li ho fatti al forno, però fritti sono più buoni, lo devo ammettere, e anche quelli di mamma sono più buoni ma questo era ovvio...



Ravioli con ricotta al forno

20 ravioli tondi
250 grammi farina circa + a raccogliere
2 uova grandi (intere)
80 grammi zucchero
1 cucchiaino lievito dolci
2 cucchiai olio
1 cucchiaio Strega

Ripieno
125 grammi circa ricotta
1 cucchiaio Strega
4 cucchiai zucchero
gocce di cioccolato oppure scaglie

Preparare il ripieno:
battere la ricotta con lo zucchero, aggiungere il liquore e le scaglie di cioccolato (io ho fatto a pezzi un pezzo di tavoletta di fondente)



In una ciotola mettere la farina a fontana, rompere le uova intere, aggiungere lo zucchero e cominciare ad impastare.

Aggiungere l'olio, il liquore e il lievito, e continuare ad impastare fino ad ottenere un impasto della consistenza della sfoglia all'uovo.



Tirare la sfoglia sottile, possibilmente con la macchinetta, e tagliare i dischetti. Ho aggiunto una quantità non precisata di farina perchè mi si attaccava al mattarello, mi spiace non essere più precisa...



Metterli su carta forno, su una teglia, e farcirli con un cucchiaino di ripieno.



Coprire col resto della sfoglia, chiudendo bene i ravioli.

Mettere nel forno già caldo, a 180 gradi, sul ripiano centrale, con una leccarda sotto, per circa 20-25 minuti. Spolverarli abbondantemente con zucchero a velo.

Tenerli chiusi, perchè col passare dei giorni tendono ad indurirsi un po'...

mercoledì 3 febbraio 2010

Ultimi ricordi dell'estate



Come ho già accennato, la vacanza della scorsa estate è stata bella, vi ho già fatto vedere un sacco di fotografie e raccontato in lungo e in largo le bellezze del Lago di Braies e della Val Pusteria, vi ho illustrato con dovizia di particolari le nostre scarpinate, le mie disavventure di cittadina pigra e desolatamente fuori forma, di quello che abbiamo mangiato, e tante altre cose ancora.





Questa è una delle ultime cose che ho da raccontarvi – coraggio, ho quasi finito – ed è la salita al Monte Specie (StrudelKopf, che purtroppo non ha niente a che vedere col famoso dolce) , nella Val di Landro, tra la Val Pusteria e il Cadore, siamo quindi quasi al confine col Veneto: una passeggiata piacevolissima, ad alta quota, con dei panorami veramente mozzafiato, e non molto difficile dal punto di vista tecnico.

Diciamo che è lunghetta, calcolate almeno tre ore, ma con salite agevoli, un paesaggio apertissimo, su prati rasati pieni di fiori…a me è piaciuta da morire, perché ho visto cose meravigliose con non moltissima fatica: reggo benissimo le scarpinate lunghe ma con poche salite, mentre a Luca piacciono quei sentieri terribili che si inerpicano ripidi e difficili, che magari non arrivano quasi a nulla però mettono a dura prova il suo fiato e i suoi muscoli.

Io, che non ho nè l’uno né gli altri, mi accontento di questi bei sentieri agevoli, anche se in ogni caso questi termini hanno ben altro significato rispetto ad una bella passeggiata a Via del Corso a guardar negozi…




Si arriva con la macchina fino all’albergo Prato Piazza, già a quota 1890 metri: bisogna andarci presto perché l’ultima parte della strada chiude alle 10 (e comunque si paga per salire con la macchina), e sono altri bei chilometri da fare con la navetta. Da qui inizia il sentiero, ampio, quasi un’autostrada, almeno fino al Rifugio Vallandro, 2040 metri (il puntolino che si vede sul sentiero, col maglione a righe, è mio marito, sempre un chilometro davanti a me).

Proprio davanti al rifugio c’è questo rudere molto affascinante: si tratta del Forte Prato Piazza, un fortino austroungarico costruito alla fine dell’ottocento. Durante la prima Guerra Mondiale era presieduto dalle truppe nemiche, che combattevano sulla linea di confine, contro quelle italiane appostate di fronte, sul Monte Cristallo. Tutta questa zona è stata teatro di lunghe e sfiancanti battaglie di trincea, come il Monte Piana, nelle vicinanze, un’altra passeggiata in quota che vi consiglio vivamente, se passate da queste parti.



Da qui si comincia a salire, ma davvero si tratta di un cammino da fare senza eccessivi sforzi. In montagna, ovviamente, si deve stare sempre attenti agli inconvenienti: in questo caso già dall’inizio abbiamo osservato preoccupati delle nuvolaglie plumbee che si addensavano minacciose all’orizzonte, e non promettevano nulla di buono, ma lo spettacolo era troppo emozionante per desistere.
Gambe in spalle, abbiamo cominciato a camminare velocemente, incontrando un altro fortino in abbandono.

Poi, proprio in mezzo al sentiero, un gruppo di mucche dall’aria bellicosa, che non volevano saperne di lasciarci passare. Non voglio passare per una mammoletta, ma vi assicuro che l’aria minacciosa con cui mi scrutavano non prometteva nulla di buono. Luca è andato a parlamentare con loro, cercando di convincerle con le buone maniere a far passare la donzella cittadina in preda al panico, ma è stato tutto inutile.



Non sono serviti neanche gli sghignazzi di mio marito, a convincermi a seguire il sentiero –d’altra parte non è stato mica lui, tempo fa, ad essere inseguito da una mucca impazzita. Ho bypassato elegantemente il gruppo di ruminanti poco simpatici e, sotto un cielo sempre più basso e scuro, eccoci ad un grande pianoro battuto dal vento, la sella di Monte Specie, da cui si gode di una visione a 360 gradi tra il Monte Cristallo e le Dolomiti del Veneto.




La meta ultima è la cosiddetta Croce dei Reduci, una vasta area pianeggiante a quota 2200 metri e, proprio dalla punta più alta, ecco in lontananza, immerse tra nuvole tenebrose, le Tre Cime di Lavaredo, imponenti, maestose, quasi un set naturale degno del Signore degli Anelli (il puntolino che indica tre con la mano è sempre mio marito, già arrivato in vetta).
Appena giunti alla meta, sbatacchiati da un vento impietoso e freddo, abbiamo fatto appena in tempo a tirare fuori i Kway che ha cominciato a piovere, quella pioggerella sottile ma insidiosa, gelida e crudele che si insinua sotto i vestiti e ti riduce un ghiacciolo privo di sensibilità.
La Croce si trova su un pianoro completamente esposto ai venti in tutte le direzioni, senza possibiltà di riparo alcuno. Non abbiamo avuto altra scelta che ripartire subito, prima che il fronte temporalesco si scatenasse sulle nostre teste.



Siamo scesi a grandi balzelloni sotto la furia degli elementi, verso il Rifugio Vallandro, avvoltolati dentro il nylon, con un freddo polare che a Roma solo in gennaio: in origine il programma era di mangiare i nostri buoni panini con formaggio di malga sul prato, ammirando il panorama, ma ovviamente non è stato assolutamente possibile.

Ci siamo quindi rifugiati nel Rifugio (da qui il nome), infreddoliti e stanchi, annusando speranzosi i buoni odori della cucina.

Al rifugio Vallandro la cucina è semplice e casareccia, ma vi assicuro il bel piatto di patate al forno tagliate tonde (sottili, croccanti e saporite) con l’uovo abbrustolito sopra, assieme al pane scuro, dentro una saletta foderata di legno, al calduccio, al coperto, mentre fuori imperversava la pioggia, è stata una delle esperienze più piacevoli della vacanza.




E proprio qui, indecisa tra vari dolci tradizionali, ho assaggiato la Torta al Grano saraceno, che vi ho già proposto tempo fa.




Questa è una versione alternativa, sicuramente più leggera ma meno goduriosa di quella ufficiale: ho fatto un impasto con olio e yogurt.
Il risultato è stato meno dolce e meno pastoso della versione precedente, sicuramente più buona e profumata, ma mooooolto molto più calorica.
Potrebbe essere assimilato ad un pandolce, sostanzioso, morbido ma non troppo. Rispetto all'originale non c'è il burro e neanche la frutta secca.




Torta al Grano saraceno e Marmellata di Mirtilli Neri (versione light)


180 grammi farina grano saraceno
120 grammi farina 00
125 grammi zucchero
3 uova
1 yogurt compatto
Mezzo bicchiere scarso di olio evo
1 bustina di lievito
2 cucchiai di liquore

Montare i Tuorli con zucchero, fino a renderli gonfi e spumosi. Aggiungere lo yogurt, l'olio, il liquore.

Mescolare accuratamente le due farine col lievito, quindi aggiungere poco alla volta all'impasto.

Montare le chiare a neve con un pizzico di sale, ad amalgamarle delicatamente al resto.

Versare l'impasto in una teglia 24 centimetri con cerniera.

Una volta fredda tagliarla a metà, farcirla colla marmellata, richiuderla e spolverarla di zucchero a velo.

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