I miei viandanti

mercoledì 30 settembre 2009

Uva dolce come il miele



Oggi un post un po' più leggero di quello precedente, prima che i miei parenti comincino a preoccuparsi seriamente del mio stato mentale, più di quanto facciano normalmente...

Visto che è tempo di uva, che trabocca dai banchi del mercato in tutte le forme e tutti i colori, ecco un dolce semplice, non molto dolce, ma alto e morbido, fatto con l'uva bianca.
Ne avevo provate altre versioni di mia creazione all'Uva Bianca e all'Uva Rossa, ricette che ho rifatto più volte, e allora ho cominciato a cercare qualche versione alternativa, per non ripetermi troppo.
La ricetta l'ho presa dal Blog Menta e Liquirizia dell'amica Marianna, la pagina è questa.

Io ho scelto una Regina di Bari dal chicco allungato, del colore del sole e dal sapore di miele, veramente un'uva dolcissima, ma può andare bene qualsiasi tipo.


Al mio mercato ce ne sono veramente di molti tipi, anche se le varietà bianche sono di più, però alcune, soprattutto quelle più economiche, spesso sono state una vera delusione, asprigne e poco dolci. A me poi il colorito verdastro ispira molto poco, preferisco quella veramente gialla, dorata.

Allora preferisco spendere un po' di più, ma comprare dell'uva veramente buona, visto che la stagione dura così poco. Oddio, alcune volte ho preso anche delle sòle anche pagandola tanto, tipo un'uva rossa a chicco enorme che si presentava benissimo, a 3 euro al chilo, e non sapeva assolutamente di nulla.

Insomma, la ricetta è questa:

300 gr. di farina “00”
1 uovo intero
200 gr. di latte
2 cucchiai di olio
90 gr. di zucchero semolato
Scorza grattugiata e succo di un limone non trattato
1 pizzico di sale
1 bustina di lievito per dolci vanigliato
350 gr. di acini d’uva al netto

2 cucchiai di Strega

Teglia da 24 centimetri con cerniera

Lavare bene l'uva e asciugarla, spaccare a metà gli acini e togliere i semini.

Sbattere con la frusta elettrica l'uovo e lo zucchero, fino a farlo diventare gonfio e spumoso. Aggiungere il sale, il latte e l'olio, la scorza di limone e la Strega.
Infine mescolare farina e lievito ed aggiungerli poco alla volta, fino a formare un impasto piuttosto consistente.

Mescolare delicatamente l'uva tranne una parte che servirà come decorazione.

Rovesciare l'impasto nella teglia coperta da carta forno, schiacciandolo bene (è piuttosto denso).
Decorare con gli acini rimasti, infilandoli nell'impasto.
Spolverare con qualche cucchiaio di zucchero semolato, per ottenere la crosticina.

Infornare in forno già caldo, a 180 gradi, sul secondo ripiano dal basso, per circa 45-50 minuti.

lunedì 28 settembre 2009

Riflessioni inquiete di fine estate



In queste settimane, tornata dalle vacanze, ho avuto una specie di assopimento mentale, durato non poco: la macchina fotografica, usata finora in maniera maniacale, riposta in un angolino, muta e solitaria; niente idee sulla carta, niente racconti, pochi ricordi di viaggio e piuttosto confusi, nessuna voglia di rimettere ordine nei pensieri oziosi; nessuna voglia di ricominciare a cercare e sperimentare ricette, insomma, una specie di sonnolenza della creatività, un obnubilamento, per fortuna temporaneo, dell’entusiasmo di sempre.

Giorni strani, in cui mi sono chiesta, addirittura, se avevo davvero voglia di ricominciare a scrivere, ad avere un appuntamento quasi quotidiano con i miei lettori (volontario, ma comunque impegnativo).
Tra pochi giorni ricorrerà il secondo anniversario di questo blog. Due anni non sono pochi, anzi, mi sembra passato moltissimo tempo, e quasi non mi ricordo più perchè ho cominciato.
Perché avere un blog e, soprattutto, perché di cucina? In fondo non sono una cuoca, sono solo una a cui piace pasticciare, e non solo in cucina - i miei entusiasmi passeggeri sono noti a tutti quelli che mi conoscono bene - in effetti, questa del blog di cucina è una veste che comincia a starmi un po’ stretta, anche se non scrivo solo di quello: perché, poi, sono partita con un blog di cucina? Mah, chi se lo ricorda...

Penso, in realtà, che le ricette spesso rappresentino solo un modo per parlare di me, delle cose che mi succedono, delle mie giornate sì e di quelle no, delle piccole cose quotidiane di cui è fatta la vita di tutti i giorni: una specie di auto-terapia che diventa pubblica, ed il fatto che interessi davvero qualcuno è una fonte continua di sorpresa, per me.
Poi mi sono fatta coraggio, e ho rimesso mano alla tastiera, un po’ come veniva.

Per tutto questo mese ho scritto di tutt’altro, vacanze, passeggiate, fotografie…non che abbia smesso di cucinare, ma mi sembrava di avere urgenza di parlare di altre cose, accantonando per il momento le ricette che ho sperimentato (poche, in verità). Solo negli ultimi giorni ho avuto di nuovo qualche guizzo di ripresa, soprattutto dopo essermi abbondantemente riposata nei giorni di ferie.

Vi sembra, talvolta, che le vostre giornate non abbiano molto senso?

A me succede spesso, torno a casa dal lavoro con la sensazione di aver sprecato il mio tempo inutilmente (non dal punto di vista pecuniario, almeno non del tutto, piuttosto da quello umano) e magari di averlo fatto sprecare agli altri. Però questa sensazione mi capita anche quando sono a casa, e magari perdo tempo ciondolando tra la televisione, i miei passatempi e magari qualche passeggiata oziosa: tempo che potrei impiegare più proficuamente, ma a fare che, in definitiva?
La vita viene scandita dai piccoli e inevitabili impegni, dei rituali inamovibili, doveri a cui non si può scampare, anche se sono noiosi e ripetitivi, piccoli e grandi dolori, piccole e grandi gioie.

Non so, forse questo blog talvolta assume un significato più interiore, qualcosa che va oltre e più in profondità rispetto al mero racconto del museo o alla descrizione di una torta, e cioè di dare la sensazione di combinare qualcosa di tangibile (se tangibile può essere definito un blog virtuale, in sostanza un vero ossimoro), di lavorare ad un progetto, o semplicemente di raccontare delle cose di me che andrebbero perdute, delle passioni che rimarrebbero taciute o represse.

A volte è il desiderio di scrivere un bell’articolo, di condividere dei posti che mi sono piaciuti, dei libri che ho amato o dei film che mi sono rimasti nel cuore, che mi spinge ad uscire, ad impegnarmi a fermare nel tempo le storie che più colpiscono la mia immaginazione, a raccontare aneddoti ed accadimenti vicini o lontani nel tempo: un modo forse per sentirmi viva, e non congelata, soporosa, immobile, sempre uguale a me stessa?

E’ la curiosità, la voglia di scoprire sempre cose nuove anche nella vita che ci scorre accanto, magari di cercare la bellezza nelle piccole cose che ci circondano, che ci impedisce di ristagnare nelle stesse acque immobili e profonde, di appassire dentro?

Credo di sì…l’irrequietezza che ci spinge a cercare altro da noi, dalla nostra routine quotidiana e dalla passività in cui altrimenti si rischia di impaludarsi, senza quasi accorgersene, è quel soffio che ci rende inquieti e trepidanti, angosciati ma anche vitali, fluidi e intensi, alla ricerca di qualcosa magari senza nome, magari evanescente, ma comunque dinamici, curiosi, in definitiva vivi…
E allora è meglio essere curiosi ma irrequieti, piuttosto che tranquilli e morti dentro…ma non si potrebbe cercare una via di mezzo, una strada rilassata e pur tuttavia fantasiosa e vivace, per cogliere solo i lati migliori della nostra vita senza ottenebrarsi l’anima?

Ah, se si riuscisse a trovare l’alchimia giusta per farlo…


E allora, visto che alla fine qualcosa bisogna pur fare, per non arrendersi del tutto, ecco una ricetta di un dolcetto semplice semplice, morbido e dallo spiccato gusto di caffè.

Mi era rimasto un fondo di caffè solubile (mischiato ad orzo) e ho buttato giù questa ricetta, ribattezzata Mattonella al caffè, che si è rivelata ottima. Come al solito, ho evitato burro e una dose eccessiva di zucchero, continuo a preferire impasti semplici e poco grassi. Le dosi sono una per teglia 20 per 20 centimetri, credo comunque che una tonda da 24 centimetri vada bene lo stesso.



3 uova grosse
200 grammi zucchero
350 farina
Mezzo bicchiere di olio
1 bicchiere di latte
5 cucchiaio caffè solubile (il mio era caffè e orzo)
1 tazzina caffè ristretto
1 bustina di lievito

Battere le uova intere con lo zucchero, co la frusta elettrica, montarle bene prima di aggiungere l’olio, il latte e il caffè espresso.

Aggiungere la farina mescolata al lievito, in ultimo aggiungere il caffè in polvere.

45 minuti i forno già caldo, secondo ripiano dal basso, a 180 gradi nella teglia imburrata e infarinata.

Spolverare con zucchero a velo.

sabato 26 settembre 2009

Ortensia alla conquista del mondo


Questa è la piccola storia, accaduta appena ieri, di una ardimentosa tartarughina delle dimensioni di una piccola albicocca, persa nel pericoloso mondo umano. La cucciola è stata trovata in mezzo alla strada, alla mercè di automobili e passanti distratti che potevano schiacciarla, magari inavvertitamente.

E’ stata raccolta amorevolmente da una passante (mia madre) che è arrivata a casa mia con questo cosino minuscolo in mano, spaventata ma sostanzialmente illesa.

Cosa ci facesse in giro per il mondo, lontana dalla sua mamma e dalle sorelle di uovo, non è dato sapere: comunque è stata deposta subito dentro un coperchio di scatola di scarpe, e osservata minuziosamente alla ricerca di danni visibili. Dopo qualche minuto di raccoglimento nel suo carapace, la piccola ha tirato fuori il musetto e abbiamo capito che non aveva ferite, sembrava intatta e con gli occhietti belli arzilli.


È stata lasciata ad ambientarsi nel suo coperchio, poi ho tentato di rifocillarla con qualche cibo adatto a lei: ma poi, cosa mangiano le tartarughe, soprattutto così piccole?
A prima vista sembrava una testuggine di terra, non di mare, ma le mie nozioni tartarughesche sono a dir poco carenti, magari si tratta di un raro esemplare di Caretta Caretta, vai a sapere…qualche anno fa, qualcosa più di trenta, in casa avevamo una tartaruga di nome Lula, però di quelle grandi, che zampettava dentro casa, e mangiava insalata e frutta a pezzetti.

L’estate la portammo in vacanza con noi a casa dei nonni, a San Vito Romano, e la lasciammo liberare di girovagare nel giardino, che pensavamo fosse il paradiso di ogni tartaruga.

Non l’abbiamo più trovata.

Insomma, nella scatola della piccola ribattezzata da me Ortensia (non essendo assolutamente in grado di stabilirne il sesso, ho deciso che fosse femmina) ho messo mezza foglia di lattuga, un chicco d’uva spaccato a metà,qualche filo di erba gatta e una ciotolina con acqua, che ha provveduto subito a rovesciare allagando la scatola, un pezzetto di pomodoro, e poi ho lanciato l’S.O.S su Facebook, incerta sul da farsi.

Mi hanno risposto in tanti, con una serie di consigli sensati da chi di questi animaletti si intende, e finalmente ho trovato una sistemazione consona presso la mia collega Alessandra.
Seguendo i suoi consigli ho tolto subito il pomodoro, che non possono mangiare, e ci ho messo qualche pezzetto di mela, ma la piccola non ha mangiato niente.
Si è rifugiata sotto un tovagliolo e si è messa a dormire, evidentemente stremata da troppe emozioni. Allora l’ho deposta al sicuro dai miei gatti, sul tavolo della cucina, al buio, sperando che la mattina dopo fosse ancora viva.

I gatti fortunatamente l’hanno degnata poco più che di una annusatina distratta, poco incuriositi da questo esserino silenzioso: questa mattina Ortensia era ancora sotto il tovagliolo, a poltrire.


L’ho portata alla luce e, dopo un risveglio faticoso (anche lei soffre della mia stessa sindrome, forse ci vuole una sostanziosa colazione e un buon caffè anche per le tartarughe insonnolite) si è stiracchiata le zampette e ha cominciato ad esplorare la scrivania, passeggiando sulla tastiera, girando intorno ad un curioso oggetto di nome Mouse, e tentando di cataputaltarsi di sotto da tutte le parti.
Visto il suo spirito indomito – non sapete quanto è difficile star dietro ad una tartaruga determinata ad evadere – ho capito che la sua non è stata una fuga per sbaglio, Ortensia è una tartaruga curiosa che, evidentemente, ha deciso di lasciare il suo giardino per partire all’esplorazione del mondo.


In ogni caso, nella sua scatola c’era una minuscola cacca, dal che si può dedurre che gli intestini della piccola Ortensia funzionano alla grande.
Per un attimo ho pensato di tenerla nel nostro minuscolo zoo (due bipedi umani e due felini), come mascotte onoraria, poi ho deciso che sarebbe stata molto meglio insieme alle sue simili, curata da chi le conosce e sa come allevare una piccola tartaruga in crescita.

Ortensia è stata messa in una scatola da pantofole col coperchio bucherellato e foderata di carta di giornale, ed è stata portata con l’autobus (ma non saranno troppe tutte queste emozioni, per una tartaruga così piccola?) alla sua destinazione: consegnata alle amorevoli attenzioni di Alessandra, che ospita altre tartarughe di varie età ed è un’esperta, è risultata essere una cucciolotta di neanche un mese, di sesso incerto perchè il sesso di una tartaruga non si sviluppa prima dei 4 anni di età, per cui per il momento il nome di Ortensia va benissimo.

Alessandra si è procurata alcune foglie di lattuga fresca e croccante e l’ha imboccata, fino a che la tartarughina non ha dato un bel morsetto alla foglia di insalata, e poi un altro ancora, dimostrando di essere arzilla, affamata e in ottima salute.

Ortensia rimarrà nella sua scatola, tra la lattuga, fino a stasera, quando verrà sistemata in un bel terrario provvisto di lussuosa piscina, con altre 4 coinquiline solo poco più grandicelle di lei.


Au revoir, piccola Ortensia alla conquista del mondo, che la tua vita possa essere lunga, piena di mele dolci e croccanti foglie di insalata fresca!

mercoledì 23 settembre 2009

Il '68 e il Grande sogno infranto


Ci sono particolarmente affezionata, all’anno, non al film, e per una ragione abbastanza ovvia: ci sono nata, proprio in quella primavera quando, assieme alle promesse di caldo e di fiori, un vento foriero di ben altre promesse cominciava ad agitare gli adolescenti e i giovani del mondo intero, che non sarebbe stato più lo stesso (ahi voglia a scrivere sui manifesti del film No 68 con la vernice rossa, come hanno fatto alcuni imbecilli dalle mie parti: la storia non si cambia, e il mondo non è più stato lo stesso, nel bene e nel male, che loro lo vogliano o no).

Ovviamente, non me ne posso ricordare, essendo all’epoca una neonata, ma qualcosa di quel periodo bello e terribile è rimasto nel decennio a venire, nell’aria di quegli anni difficili che noi bambini assorbivamo, e soprattutto in quella generazione prima della mia che è cresciuta, cambiata, ha perso i suoi sogni ed ora chissà dov’è finita: magari non è mai riuscita ad ottenere neanche un decimo degli ideali in cui credeva, o forse se ne è completamente dimenticata, di quei sogni e di quelle speranze che ora, ai nostri occhi cinici e disincantati, sembrano ingenue e fuori dalla realtà.

Sono andata a vedere il film di Placido con curiosità perché le storie di quegli anni non cessano di affascinarmi, forse proprio per la ingenuità che ci fa difetto adesso: ho amato moltissimo le due storie che mi è venuto istintivo associarvi, lo sceneggiato La meglio Gioventù, che riesce a commuovermi ogni volta, e anche The Dreamers, pur con qualche tentennamento alla prima visione. Del resto, Bertolucci mi fa sempre questo effetto: la prima volta che vedo un suo film proprio non mi piace, non lo capisco, però non mi lascia indifferente.
E allora serve una seconda o una terza visione, per capirlo appieno e per innamorarmene.
E’ successo con Io Ballo da Sola, ed è successo lo stesso con The dreamers e i suoi tenebrosi gemelli francesi.

Credo di aver già raccontato questo aneddoto da qualche parte: la platea con cui condivisi il film era, inspiegabilmente, di signore di una certa età, anche piuttosto anziane. Non essendo solitamente i film di Bertolucci delle storie da educande, la cosa era già curiosa in sé (forse non si ricordavano che il regista era quello dello scabroso Ultimo tango a Parigi, sì sì, proprio lui).

Eppure rimasero senza fiatare per tutto il film poi, dopo una scena particolarmente maliziosa, una distinta signora coi capelli bianchi commentò, ad alta voce:
Io nel 68 c’ero, ma queste cose mica me le ricordo!”
E’ evidente che c’era, ma in una generazione sbagliata!

Comunque, inizio col dire che alcuni film di Placido come regista mi sono piaciuti moltissimo, come Un Viaggio chiamato amore,che mi ha spinto ad approfondire la vita e gli scritti di Sibilla Aleramo. A parte la bella storia, i costumi e gli ambienti ricostruiti a meraviglia, apprezzo in maniera particolare Laura Morante, in questo film in assoluto stato di grazia, brava come non mai, bella ed elegante.

Molto meno mi convinse Romanzo Criminale, come ho avuto modo di commentare abbondantemente nel post riguardante la serie omonima, per non parlare di Ovunque sei, su cui stendo un velo pietoso sia sulla storia che sugli attori.

Beh, questo Il Grande Sogno mi ha convinto solo a metà, sulla scia del precedente: un film sicuramente ambizioso, molto curato nella fotografia, alcune scene di grande atmosfera; però mi ha dato un senso di irresolutezza, di deja vù, come un tentativo di fare film di genere, mescolando la Meglio Gioventù e il triangolo amoroso del Bertolucci nostalgico in una colorata mistura dai colori retro, senza nessun tocco poetico, una ricostruzione più formale che sostanziale.
Ricorrono lungo tutto il film una serie di clichè d’epoca, già visti in tutte le pellicole che riguardano quel periodo, e che alla lunga rischiano di risultare ripetitivi: gli scontri con la polizia, i capelli lunghi e le barbe incolte, le bandiere rosse, il linguaggio politichese incomprensibile e surreale, le occupazioni, i giovani belli e maledetti, il sesso libero e spensierato, le piccole storie che si intrecciano con le grandi, il tutto con un sottofondo musicale un po’ invadente, in alcuni momenti fuori luogo.

Inoltre, più che al ‘68, in quelle scene vi ho percepito echi di avvenimenti più recenti: l’occupazione sarebbe potuta essere tranquillamente la Pantera del '90 (a quella sì che c’ero, un anno bellissimo e indimenticabile a La Sapienza); i discorsi erano gli stessi, le bandiere pure, gli aspetti vintage e un po’ sciamannati degli studenti di Lettere, l’occupazione della Biblioteca (Scamarcio no, quello non me lo ricordo, purtroppo).

Mentre le scene di carica della polizia, i manganelli e la violenza gratuita mi sono parse scene a cui di questi tempi ci stiamo dolorosamente abituando: dopo gli oscuri anni Settanta, pochi avrebbero pensato di rivederle ai nostri giorni, ma gli accadimenti di Genova sono stati un brusco risveglio anche per la mia di generazione, che non avrebbe mai pensato di vivere quell’incubo, indegno di un paese civile.

Bravi gli attori: Scamarcio, che di solito non mi dice molto, qui si rivela convincente; perfetto Luca Argentero in veste di aitante barricadero, una sorta di Che Guevara dal fascino casereccio. Come attore lo sto rivalutando sempre più, è evidente che anche i bravi critici come me ogni tanto prendono cantonate clamorose: ultimamente non sta sbagliando un film, dalla frizzante commedia Lezioni di Cioccolato, passando per il malinconico Solo un padre fino allo spumeggiante Diverso da chi.
Jasmine Trinca forse è meno brava che in altri film, anche se l'hanno premiata come Attrice emergente, mi aveva convinto più in altri ruoli.
Degli altri, è difficile dire, perchè rimangono tutti sullo sfondo, appena abbozzati, alcuni solamente nel ruolo di comparse mutangole (ma il fidanzato di lei, presente nelle prime scene, che fine fa?).

Capisco che non è facile scrivere una storia su quegli anni, col pericolo di cadere nella retorica o nel rimpianto, ma in definitiva questo film mi è parso un esercizio di stile un po’ manieristico, con personaggi dalle potenzialità interessanti ma tratteggiati in modo troppo superficiale, nonostante il regista si sia ispirato alla sua storia personale.

Forse un’ora e tre quarti sono un tempo ridotto per descrivere bene quegli anni, condensare una generazione in pochi tratti, e anche per farti amare questi ragazzi, per farteli sentire veri, vivi.

Ci sono dei personaggi che ti entrano nel cuore, che ti rendono parte della storia, che ti emozionano: beh, nessuno dei tre protagonisti c’è riuscito appieno, nonostante qualche eco dell’emozione del regista si rispecchi nel personaggio interpretato da Scamarcio (che impersona lui stesso).

Forse poco scandagliati i motivi per cui portano ad essere i personaggi quello che sono, a motivare le scelte che fanno, che li portano a scegliere da che parte stare. Forse il taglio documentaristico, con molte scene di genere e troppe figure di contorno veramente evanescenti, se non silenti del tutto, rendono ancora più difficile essere toccati da questa storia, che poteva essere approfondita in altra maniera, da altre angolazioni.
Non basta ricreare scene di cariche, manganelli, slogan politici e liberazione sessuale per trasmettere la magia e l'orrore di quegli accadimenti, magari bisognava pescare un po' più in profondità per trasmettere a noi, che di quegli avvenimenti ne abbiamo solo sentito parlare, tutta l'emozione e la paura di chi c'era, di chi quelle emozioni le ha provate sulla propria pelle.

Insomma, una sufficienza appena, per un regista da cui ci saremmo aspettati un po’ di più, soprattutto per la grande professionalità e il coinvolgimento personale nella sceneggiatura.

martedì 22 settembre 2009

Artigianato locale a Dobbiaco


I ricordi dell'estate proprio non se ne voglio andare, miei cari, soprattutto in questi giorni sospesi tra estate e autunno, tra il lussureggiante rigoglio di agosto e la malinconia delle foglie cadute di ottobre.

Se c'è una cosa che adoro del nostro nord, è la cura per l'ambiente, per le città e i paesi, che in Trentino Alto Adige è portato ai massimi livelli: già hanno un tipo di architettura bella, fatta di case piccole, baite, costruzioni di legno decorate con ringhiere, balconi e davanzali fioriti. In tutto questo, ci aggiungono strade pulitissime, bei negozi e artigianato: molto di voi sono andati a vedere i mercatini di Natale, non solo in Italia ma anche in Austria, Germania e altri paesi nordici, e tutti ne hanno raccontato meraviglie.
I colori, le atmosfere, begli oggetti, specialità dolciarie, formaggi, salumi e quant'altro, un vero tripudio di odori e di sapori, il tutto immerso nell'atmosfera magica del Natale, degli abeti decorati e magari anche la neve.
Mi piacerebbe vedere questi luoghi, che io conosco bene d'estate, nel bianco dell'inverno, chissà, magari un giorno....





Questo è Dobbiaco, un piccolo paese sulla Via di Pusteria, tra la più grande Brunico e il pittoresco San Candido, proprio allo svincolo per la Valle di Braies.
Nella piazza spicca la solita, graziosa chiesa color pastello, con cupola a cipolla, e bei negozi tutt'attorno, di cui uno molto bello che vende oggetti di peltro: l'altra volta ci comprai una bella cornice da fotografia stile Liberty, con margherite e tulipani, e un portapenne uguale. Quest'anno mi ero ripromessa un altro bell'acquisto poi, visto che per comprare l'unica cosa che mi piaceva (un orologio da muro in peltro e ceramica) avrei dovuto fare un mutuo, ho soprasseduto, anche se malincuore.


Dobbiaco è già carino di suo, ma il giorno che siamo passati di qui c'era anche una piccola mostra-mercato di artigianato locale, e non ho potuto fare a meno di girare per le bancarelle, a guardare ammirata questi piccoli capolavori.
Lavori in legno intagliato, corteccia, in carta, ceramica e terracotta, e poi altri deliziosi oggetti di vario tipo...era tutto talmente grazioso che alla fine non ho comprato nulla.


Io adoro sia l'artigianato che i cosiddetti pigliapolvere, come li definisce la mia amica, soprattutto porcellana e ceramica: in verità, ne ho la casa stipata, ogni tanto faccio un bel cartone e metto in cantina, stufa di avere le mensole e le librerie piene di oggetti e di polvere.
Poi, ogni tanto non resisto, una teiera (la mia passione), una statuetta, una tazza, una candela, oppure ci pensano quelli che mi conoscono bene, a regalarmene, sapendo di farmi cosa gradita, e allora come si fa a resistere?

venerdì 18 settembre 2009

La difficile vita dell'escursionista dilettante: Monte Elmo, la prima salita in quota



Di solito, i consigli per chi, cittadino, si avventura su impervi sentieri di montagna senza allenamento, sono questi: cominciare con sentieri semplici, percorsi non impegnativi, sforzo graduale da aumentare giorno per giorno, e sarebbero indicazioni di assoluto buonsenso che però, puntualmente, vengono ignorate, sopravvalutando ottimisticamente le proprie forze.

La prima cosa da fare è prendere una buona cartina dei sentieri, e una guida con la descrizione degli stessi, ma questo non sempre basta: innanzi tutto bisogna imparare a decifrare le descrizioni, traducendoli nel linguaggio per i comuni bipedi cittadini.

Sentiero agevole di circa quattro ore, con tratti mediamente ripidi, dislivello medio, lungo tratto in quota, adatto ad escursionisti anche senza allenamento.
Traduzione: non ve la caverete in meno di sei ore, con tratti di salita perpendicolare che supererete con la lingua di fuori, solo alcuni pezzi pianeggianti in cui cercherete di recuperare l'affanno, rotolando su sentieri pietrosi e sotto il sole impietoso, assolutamente sconsigliato se non avete muscoli da ciclista e resistenza da maratoneta.

Semplice ascesa in cima, difficoltà nulle, ben segnalata e molto agevole, sentiero in quota, minimo dislivello, adatto anche a persone anziane e bambini, durata un'ora e mezzo, due ore.
Traduzione: perfetto per me, è evidente che non essendo più un infante sono reclutata tra le persone anziane...

Mio marito invece, che reputa da mollaccioni qualsiasi sentiero che abbia una pendenza minore di una parete verticale, è alla ricerca di sentieri tipo questo: sei ore di percorrenza minimo, dislivello 800-1000 metri, tratti rocciosi esposti e ferrate, in alcune parti non segnalato: consigliato abbigliamento e attrezzatura adatti, solo per escursionisti esperti. Richiede passo sicuro, assenza di vertigini. Sconsigliato col maltempo, munirsi di cartine.

Tirate voi le somme...





La scorsa vacanza su queste montagne arrivammo a piedi al Lago di Braies, un sentiero non difficile ma in totale circa cinque ora di camminata...io sono una camminatrice, ma in piano e su strade cittadine, magari piene di negozi, e non è proprio la stessa cosa! Risultato: muscoli a pezzi, gambe doloranti e due giorni di lievi passeggiatine per riprendersi.

Quest'anno abbiamo consultato l'apposita guida dei sentieri, alla ricerca di un percorso bello ma non difficile, e qui si scontrano di nuovo le due scuole di pensiero: la mia, che prevede di arrivare in quota con mezzi comodi, visto che odio le salite: tipo seggiovia, funivia, ovovia, sull'asino o qualsiasi cosa non comporti uno sforzo particolare.
Quindi piacevole passeggiata in quota, con panorami stupendi e visioni mozzafiato, picnic su verdeggianti prati a base di fragranti panini con formaggio e gran finale con tavoletta di cioccolata oppure fetta di strudel, quindi lunga discesa per sentieri agevoli, tra distese di fiori e farfalle che svolazzano leggiadre, facendo frequenti soste per fare fotografie a tutto, ritorno alla bese di pomeriggio, quindi sosta rigenerante a base di cioccolata con panna e fetta di strudel, giusto per riprendersi un po' dalla fatica.
Quella di mio marito: partenza dal basso, salita in quota della durata di due o tre ore, meglio se su sentieri impervi, pieni di rocce e scalini, qualcosa che metta a dura prova muscoli e fiato, il tutto a velocità costante e senza soste, niente tempo perduto dietro a farfalle, a fare foto o rimirare il panorama.
Arrivo in quota praticamente senza fiato, rapido pranzo, riposino sull'erba, e quindi discesa rapida alla base.

Ecco, diciamo che i nostri progetti sono difficilmente conciliabili, però bisogna anche cedere a qualche compromesso, se si vuole fare la gita senza che uno dei due sia tentanto di buttare l'altro in qualche dirupo, e poi dire..Oops, è caduto, che peccato!

Per cui, in questo caso Luca ha acconsentito a prendere la funivia, pur protestando sonoramente durante tutta la salita che così non vale, ma vuoi mettere salire in cima fino a 3000metri a piedi, così sono buoni tutti.
Insomma, dal paesino di Sesto di Pusteria abbiamo preso la cabina, e siamo arrivati alla base di partenza del sentiero per Monte Elmo. La descrizione della Guida era: semplice ascesa in cima, lunga discesa a valle, totale 3 e mezzo, ci si può fare.

Dall'arrivo della funivia, la prima facile tappa è il Rifugio Gallo Cedrone, solo una mezz'oretta di sentiero veramente facile, ma con panorama mozzafiato sul gruppo delle Dolomiti di Sesto, uno dei massicci montuosi più spettacolari della zona.
Molti escursionisti si fermano qui, ma il vero percorso è molto oltre, fino al Rifugio Monte Elmo, 2433 metri, con 400 metri di dislivello in ascesa e 1120 metri di dislivello in discesa.
Breve sosta al rifugio per caffè e pipì (fatela, perchè per qualche ora non si trova un tratto boscoso neanche a cercarlo con il lanternino, rischiate di farvela addosso oppure di farla davanti ad un folto pubblico).




Eccoci di nuovo in cammino, col Rifugio alle spalle, verso la vetta: ad un certo punto, sotto le indicazioni di legno, parte il ripidissimo sentiero che arriva in cima, i 400 metri di dislivello sono tutto concentrati qui, e si tratta di una ventina di minuti, anche di più, di salita ripida, impietosa, sotto il sole...ad un certo punto mi sono fermata sconsolata, mentre il punto di arrivo mi sembrava sempre più un miraggio.
Ce la farò?




Però, il panorama alle mie spalle è un grande incitamento a tener duro...e alla fine, eccoci in cima, senza fiato sia per la salita che per la visione a 360 gradi. Il sentiero che taglia la montagna è il confine tra Italia e Austria, un piccolo cippo di marmo datato 1920, su cui è scolpita da una parte una I e dall'altra una O (Osterreich, Austria).
La cosa incredibile è che si può stare a cavallo tra i due confini, con un piede in Italia e uno in Austria, curioso davvero.
L'altra cosa curiosa è che, appena Luca ha scavallato (di un paio di passi) il confine, sul cellulare gli è arrivato un messaggio della Tim, che proponeva una tariffa speciale per telefonare dall'estero...



A questo punto, dopo aver rimirato il panorama da tutte le angolazioni, abbiamo cominciato la lunga e faticosa discesa. C'era un bel sentiero che proseguiva, in Austria, ma era già ora di pranzo ed avremmo allungato di almeno due ore...meno male che non abbiamo proseguito, visto che alla fine le tre ore e mezza segnalate sulla guida sono diventate sei, al nostro passo.




Discesa che è durata, interminabile, per la bellezza di quattro ore: niente da dire sulla bellezza dei luoghi,ma ad un certo punto il mio ginocchio ha cominciato a dare forfait, e tutto il resto dei muscoli a protestare sonoramente.




Ovviamente, abbiamo provveduto anche a sbagliare strada, allungando di qualche chilometro il percorso, e alla fine quando siamo tornati a Sesto, facendo un giro ozioso e interminabile, eravamo veramente stremati, scottati e disidratati.




Passeggiando per il paese però, non abbiamo resistito ad entrare nel piccolo cimitero, sotto la chiesa dall'intonaco verdolino, tutto un tripudio di fiori e croci in ferro battuto.



Arrivati quasi alla base, abbiamo provveduto a ritemprarci un un grazioso bar con tavoli all'aperto,Luca una birra e io un boccale di Coca Cola da mezzo litro, veramente a pezzi.

Insomma, alla fine l'abbiamo pagata cara, visto che per tre giorni abbiamo avuto i muscoli elastici come tronchi di legno...non ci siamo arresi, ma sicuramente abbiamo ridimensionato le uscite successive...

Alla prossima puntata con le incantevole località di Brunico e San Candido!

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