I miei viandanti

lunedì 27 aprile 2009

Riflessioni oziose di un giorno di riposo



Oggi Roma si è svegliata sotto un bel sole, un vero piacere fare colazione con la finestra aperta, l’aria dolce e il sole radente che illumina ogni cosa di una bella luce dorata.
Adoro fare colazione così, sotto la finestra, col tavolo ben apparecchiato dalla sera prima, la tovaglietta di bambù, tazza, bicchiere e tovagliolo di carta (a meno che Titti non ci salti sopra e lo faccia a brandelli durante la notte, spargendo coriandoli colorati dappertutto, non so se per divertirsi oppure presa da un attacco isterico notturno), e poi toast caldi, crema di gianduia con granella di nocciole (ogni tanto un’alternativa alla marmellata ci vuole), una bella tazza di caffellatte tiepido e un bicchiere di succo d’arancia.

Mi sono crogiolata qualche minuto, come fossi ancora in vacanza, col tutto il tempo del mondo a mia disposizione, una specie di quiete languorosa, di sospensione oziosa, corroborante, nonostante avessi intorno una cucina piccola e un po’ disordinata e Koko che miagolava petulante sulla credenza ( è convinto che ogni volta che uno mangia, debba mangiare anche lui, una cosa che si chiama pappa condivisa).

Finalmente una mattinata rilassata, dopo tre giorni di sveglia prima delle sei: io odio alzarmi presto, anche se non sono una vera dormigliona: però mi piace poltrire, rigirarmi sotto le coperte, procrastinando ogni cinque minuti il momento di mettere i piedi a terra, ed iniziare una nuova giornata.

Stamattina ho faticosamente aperto gli occhi alle otto e mezza passate, un sonno pesante e pieno di sogni confusi, alcuni assolutamente irrazionali, altri un po’ meno illogici, ma tutti piuttosto farraginosi. E’ la testa che, invece di lasciare la stanchezza e lo stress fuori dalla porta di casa, continua a macinare pensieri e nervosismo, a rimestare nel torbido.




Il primo giorno di riposo, dopo i miei tre turni di lavoro settimanali, è sempre il peggiore, quello in cui sai che dovresti fare tante cose, che hai vergognosamente trascurato di fare nei giorni precedenti, i piatti che si accumulano nel lavello, la pila di panni sporchi che cresce inesorabile nel cestello della biancheria, il frigorifero e la dispensa che cominciano a mostrare segni di desolazione.
Eppure il corpo, e la testa, sembrano in stand by, come in aspettativa: una certa pesantezza delle membra, una fiacchezza dell’anima che ti costringe a rallentare il ritmo della quotidianità, è come avere le pile scariche, bisogna darsi il tempo di ricaricarle, di accumulare energia nuova.

Sono riuscita a fare un po’ di cose, ma niente di quello che avevo progettato (tipo ripulire la cantina o cose altrettanto impegnative); più tardi sono uscita per fare un giretto al mercato, quello del quartiere: mi piace girellare indolentemente tra le bancarelle, anche se spesso non devo comprare niente.
Adoro curiosare tra i banchi pieni di vestiti, biancheria, oggetti per la casa, bigiotteria e cianfrusaglie varie, da pochi soldi; e poi i banchi abituali di frutta e verdura, quello che vende frutta esotica, dieci tipi di olive, frutta secca e primizie fuori stagione; la grassa e bionda signora napoletana che ha verdure di prima scelta, già capate, il minestrone fatto da lei, una latta aperta con le alici sott’olio e vende il radicchio e i frutti di bosco a prezzi da gioielleria; il brunetto che dispone tutta la sua mercanzia come fosse una merce preziosa: i carciofi in una pila circolare, quasi artistica, pomodori rossi e succosi composti in cumuli aggraziati, grossi mazzi di broccoletti acconciati come fossero bouquet di fiori preziosi, e infila gerbère e margherite sulle cataste ordinate della verdura, come una serra o una vetrina di un negozio.

Poi, nel primo pomeriggio, ha cominciato ad alzarsi un vento caldo, soffocante, un turbinìo cattivo, rabbioso, che sferza furiosamente gli alberi e schiaffeggia violento i panni stesi fuori: qualsiasi velleità di uscire che avevo, mi è passata al primo gocciolare dal cielo minaccioso. Sembra che questo grigiore non debba finire mai, ogni speranza di primavera pare un’illusione…

Non mi era mai capitato di essere così influenzata dal tempo, ormai il clima e la pioggia sono diventati argomento abituale di conversazione, come tra gli inglesi: consulto le previsioni del tempo come fosse un oracolo, in base a questo programmo le mie passeggiate, sto diventando metereopatica, o forse lo sono sempre stata. Questo tempo mi dà veramente sui nervi.

Anzi, non mi ricordo una stagione così pessima, nel corso della mia vita, tranne un giugno veramente orribile nel 1982 ( eravamo in vacanza nel paese dei nonni ed ho girato malinconicamente con la felpa per tutto il mese), e l’estate del 2005, quella del mio matrimonio: avevamo programmato il rinfresco all’aperto ed è risultata una delle estati più piovose degli ultimi anni, solo per un caso non è piovuto anche quel sabato pomeriggio, altrimenti sarebbe stato un bel disastro.



Allora vi propongo, tra tanto grigiore, una pasta coloratissima, fatta con l’ultima zucca della stagione, piselli e mais, ma ovviamente potete usare qualsiasi altra verdura colorata, come carote, zucchine o peperoni (magari hanno bisogno di un tempo di cottura più lungo).





Pasta tricolore:

Fusilli, 80 grammi a persona circa
Un pezzetto di zucca (per due persone 300 grammi)
Qualche cucchiaio di piselli in scatola
Un cipollotto o scalogno
Qualche cucchiaio di mais
Olio evo
Parmigiano

Tagliare la zucca a pezzetti e metterla in padella con i piselli, lo scalogno a fettine sottili, l’olio: far insaporire qualche minuto, rigirando spesso, quindi aggiungere qualche cucchiaio dell’acqua dei piselli, salare, mettere il coperchio e far ammorbidire circa venti minuti, fino a che la zucca e i piselli sono teneri. Coprire e tenere al caldo.

Nel frattempo mettere a bollore l’acqua per la pasta e cuocerla: scolarla bene, buttarla in padella con le verdure, insaporirla con un filo di olio a crudo, quindi spegnere il fuoco, aggiungere il mais e servire.

giovedì 23 aprile 2009

Zuppa inglese casereccia



Ed ecccoci tornati alla normalità.
I racconti di viaggio, per ora, sono finiti, ahimè...

In compenso, ho approfittato della settimana della cultura per visitare due musei di Roma che non avevo mai visto (vergogna vergogna, ci ho pure studiato archeologia...): Palazzo Massimo alle Terme e Palazzo Altemps, ambedue facenti parte del Museo Nazionale Romano.
Ma per questo racconto c'è tempo...

E' tanto che non cucino niente di particolare, complice la pigrizia e anche la quantità di ricette vecchie e racconti già scritti, da smaltire prima che facciano la muffa. Però, prima di postare qualcosa di mio o, ancora meglio, di ricominciare a pasticciare in cucina, vi propongo un dolce tipico di mia madre, una zuppa inglese diversa dalle solite, una vecchia ricetta di famiglia, secondo lei la vera zuppa inglese...

Mia madre è ottima cuoca che, pur non amando fare i dolci, si è sempre ingegnata a farli, quantunque non sia mai stata un'aspirante pasticcera come me: eppure le sono sempre riusciti benissimo...quand'ero piccola io, l'ho già detto in altri luoghi, negli anni Settanta, esistevano pochi dolci confezionati: la merenda di noi bambini era piuttosto semplice, sia il pomeriggio a casa sia quella che ci portavamo a scuola.
Spesso, al posto della pizza bianca comprata dal fornaio, quella scrocchiarella che fanno a Roma, avvolta in un foglio di carta velina marrone con gli angoli arrotolati, mamma cucinava dei ciambelloni alti e sodi, con la crosticina di zucchero sopra, oppure delle crostate enormi.

Benchè abbia la ricette della pastafrolla, non so perchè, ma non mi sono mai riuscite uguali...mah! Forse perchè le crostate della mamma sono sempre più buone...

Comunque, questa zuppa inglese è un dolce tipico delle nostre riunioni familiari, tipo Natale, Pasqua, Ferragosto e Compleanni vari... questa è stata mangiata il pomeriggio di Pasqua.

Viene fatta solitamente in dosi consistenti, e mangiata in fette altrettanto consistenti, praticamente un attentato a qualsiasi dieta però va beh, una volta ogni tanto si può anche fare, no?

P.s. le foto non sono il massimo, lo so, ma le ho scattate di fretta, prima dell'assalto famelico alla torta!


Ingredienti (non riporto le dosi perchè dipende dal recipiente)

Savoiardi
Liquore dolce (Bagna delizia, oppure rhum, oppure alchermes)
Marmellata di prugne, oppure visciole (possibilmente fatta in casa, non molto dolce)
Crema pasticcera piuttosto densa
Panna montata
zucchero a velo

Prendere un recipiente a pareti alte, una pirofila o anche una zuppiera-insalatiera.

Bagnare i savoiardi nel liquore allungato con acqua (sennò viene troppo forte).

Predisporre un primo strato di biscotti bagnati, qundi stendere sopra la marmellata.

Coprire con un altro strato di biscotti bagnati, poi stendere la crema.

Montare la panna ben fredda con un cucchiaio di zucchero a velo, versarla sulla torta e stenderla delicatamente sulla crema.

Consiglio: se la torta deve essere mangiata anche da bambini, che solitamente non amano i dolci con il liquore, si possono bagnare i biscotti con uno sciroppo di ciliegie allungato con acqua.

lunedì 20 aprile 2009

I sapori della città. L'ultimo giorno.



Come tutte le cose belle anche i viaggi, prima poi, finiscono.

La città si è svegliata, sonnolenta, sotto una rada coltre di foschia, l’aria umida ma non minacciosa, una atmosfera nebulosa e ovattata che sembra attutire suoni e colori. Solo più tardi, a mattina inoltrata il sole riuscirà, caparbio, a fare capolino e a sfilacciare gli ultimi refoli evanescenti di nebbia, regalandomi una Ferrara calda, inondata dal sole, finalmente.

Oggi è il giorno dedicato alle rimanenze, ai dettagli sfuggiti nei giorni passati, a ripercorrere strade ormai conosciute: è strano come un posto, che i primi momenti sembra nuovo e misterioso, dopo solo quattro giorni diventi familiare, consueto, sembra quasi ormai ci appartenga.

Ferrara è una piccola città, almeno per me, in pochi giorni si riesce a girarla tutta, anche se qualcosa ho oziosamente tralasciato: sinceramente, non avevo alcuna voglia di andarmi a rinchiudere in qualche museo, Schifanoia a parte (che mi sembrava doveroso), altre cose interessanti come gli interni del Castello Estense e il Museo del mio amato Boldini li avevo già visitati la volta scorsa.
Ho preferito vagabondare a vuoto, girando intorno alle cose, cercando di imprimermi ogni angolo nella mente, ispirata solo dalla fantasia e dall’estro del momento, e alle volte è proprio così che si scoprono i volti segreti e più intimi di un luogo: per caso.


Nella mattina ho percorso una bella parte del quadrante meridionale, quello verso Schifanoia, per arrivare ad un gioiello incastonato a ridosso delle mura della città, il Monastero di Sant’Antonio in Polesine.

E’ un monastero di clausura delle monache benedettine, presenti in questo luogo fin dalla sua fondazione, nel 1250 ma, come dice la sorella che mi accompagna, un cosino minuscolo che parla con un filo di voce, ora sono rimaste solo in 17.

Ogni volta che sento questa parola, clausura, mi vengono in mente le struggenti pagine di Victor Hugo nei Miserabili, che mi ammaliarono la prima volta che lessi il romanzo, in un’età così suscettibile di fascinazione morbosa come i quindici anni; pagine in cui l’autore descrive con dovizia di particolari il convento del Petit-Picpus, a Parigi, dove finisce Jean Valjean fuggendo dalla giustizia, e dove rimarrà con la piccola Cosette ( e non venitemi a dire che avete visto lo sceneggiato però il libro non l’avete letto, che vi picchio…) per ben 6 anni.

Quel convento al Vicolo Picpus (da non confondere con la moderna Rue de Picpus, non lontana), era sito in un quartiere periferico buio e fatiscente, con conventi, orti, giardini e poche e rade case, strade non selciate e lunghe cortine di mura impenetrabili : nella toponomastica moderna dovrebbe essere collocato più o meno tra il Marais e Saint’Antoine, ma già all’incirca nel 1830 era quasi scomparso, anche se Hugo ambienta la vicenda attorno al 1825, ben prima degli sbancamenti di Haussmann e della sua rivoluzione del tessuto urbano più antico, che spazzò via in pochi decenni interi quartieri e abitati risalenti ai secoli precedenti.

Il convento apparteneva alle monache Bernardine benedettine dell’adorazione Perpetua del santissimo Sacramento, un ordine di clausura durissima, che oggi non esiste più, e verrebbe da dire per fortuna, almeno non nella forma in cui lo racconta il grande scrittore francese: un residuo medioevale di devozione che prevedeva, appunto, l’adorazione perpetua 24 ore su 24 da parte delle monache che, in questo modo, espiavano i peccati del mondo intero.
La regola di questo ordine spagnolo, risalente alla metà del 1600, era una delle più dure tanto che, come ci racconta Hugo, molte di esse impazzivano, alla metà del secolo diciannovesimo al Petit Picpus non ne erano rimaste che 28, al tempo in cui scriveva Hugo l’ordine stesso si era quasi estinto.

“Mezzo secolo fa non c'era nulla che più somigliasse a un portone qualunque del portone del numero 62 nel vicolo Picpus. Questo portone, solitamente socchiuso nel modo più incoraggiante, lasciava vedere due cose che non hanno nulla di molto funebre: un cortile circondato da muri tappezzati di vite e il viso d'un portinaio in ozio. Sopra il muro di fondo si scorgevano grandi alberi. Quando un raggio di sole rallegrava il cortile, quando un bicchiere di vino rallegrava il portinaio, era difficile passare davanti al numero 62 del vicolo Picpus senza riceverne un’allegra impressione. Tuttavia era un luogo tetro, quello ch si era visto.
La soglia sorrideva, la casa pregava e piangeva.


(…)

Trascorsi i primi istanti, quando lo sguardo cominciava ad abituarsi a quella penombra di cantina, cercava di superare la grata, ma non andava più lontano di sei pollici; Si fermava a una barriera di imposte nere, assicurate e rinforzate da traverse di legno dipinte in giallo panpepato. Quelle imposte erano a libro, divise in lunghe strisce sottili, e mascheravano tutta la larghezza della grata. Erano sempre chiuse.
Dopo alcuni istanti, si udiva una voce che chiamava dietro le imposte e che diceva:
- Sono qui. Che volete da me?


Era una voce amata, talvolta una voce adorata. Non si vedeva nessuno. Appena si udiva il soffio di un respiro. Pareva che uno spirito vi parlasse attraverso la parete di una tomba.
Trovandosi in date condizioni, molto rare, la stretta stecca di una delle imposte si apriva dinanzi a voi, e l’evocazione diventava un'apparizione. Dietro la grata, dietro l’imposta, si scorgeva, per quanto la grata consentiva di scorgere,di cui si vedevano soltanto la bocca e il mento; il resto era coperto da un velo nero. Si intravedeva inoltre un soggolo nero e una forma appena distinta coperta da un sudario nero. La testa parlava, ma non vi guardava mai, e non sorrideva mai.

(…)

Intanto gli occhi s'immergevano avidamente, attraverso l’apertura che s’era fatta, in quel luogo chiuso a tutti gli sguardi. Un vuoto profondo avvolgeva quella forma vestita a lutto. Gli occhi frugavano quel vuoto e cercavano di discernere ciò che vi fosse intorno all'apparizione. Dopo pochissimo tempo, ci si accorgeva di non veder nulla. Quel che si vedeva era la notte, il vuoto, le tenebre, una nebbia dell’inverno mista a un vapore della tomba, una specie di spaventevole pace, un silenzio dove non raccoglieva nulla, neppure sospiri, un’ombra dove non si distingueva nulla, nemmeno i fantasmi.

Quel che si vedeva era l'interno d'un chiostro.”


(Victor Hugo, I Miserabili, Tomo primo, Einaudi 2004)

Una curiosità letteraria, vista l’immensa notorietà che il pessimo romanzo di Dan Brown “Il Codice da Vinci” ha donato ai luoghi in cui è ambientato il libro: l’ordine nacque a causa della profanazione del S. Sacramento sull’altare di due chiese parigine, avvenuta nel 1649.
Una era la Chiesa di st. Jean-en-Grève, l’altra è uno dei luoghi simbolo del romanzo, la Chiesa di Saint Sulpice, quella dove si troverebbe la Linea della Rosa e che, secondo la fantasia dello scrittore (ma andatevi a leggere, allora, Il Santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln, come saggio storico fa ridere i polli, ma come romanzo è decisamente migliore dell’altro), sarebbe indissolubilmente legata al Graal, al Priorato di Sion e al gran segreto custodito da due millenni.

Tra l’altro, secondo Baigent e soci, lo stesso Victor Hugo risulterebbe nell’elenco dei Gran Maestri del Priorato di Sion, dal 1844 al 1885, compreso il periodo in cui scriveva i Miserabili… con un po’ di fantasia se ne potrebbe ricavare, da questo connubio Priorato di Sion-monastero di clausura-profanazione di Saint Sulpice-Miserabili, Santo Graal e adorazione Perpetua, un romanzo sicuramente migliore di quello di Brown (magari erano le monache di clausura del PicPus, in cui nessuno poteva entrare, a custodire un segreto così importante da essere degno dell’Adorazione Perpetua, e quindi vegliato e sorvegliato 24 ore su 24?

Umberto da Eco, da par suo, ne tirerebbe fuori un altro capolavoro come Il Pendolo di Foucault).




Questo convento ferrarese, al contrario della descrizione oscura ed inquietante dei Miserabili, è un’oasi incastonata nel verde, tra orti e giardini e cespugli in fiore, ed ispira solo un senso di pace e tranquillità.
Per entrare, si deve suonare ad una vecchia porta, da cui un’anziana monaca vi scruterà, attraverso la grata (e qui ho avuto un dejà vu clamoroso, ricordandomi le parole del romanzo) e, se è il caso, vi accompagnerà a vedere per prima cosa il corpo della beata fondatrice, rinchiuso in una teca di vetro, e poi alla bellissima cappella, con coro in legno scolpito del Trecento che viene tutt’ora usato, e 3 cappelle con affreschi gotici, della scuola di Giotto, molto simili a quelli di Assisi.

L’accesso al resto del convento, i giardini, il chiostro, è interdetto, essendo un convento di clausura, le monache hanno un permesso speciale solo per far visitare la Chiesa e accompagnare i turisti.

Uscita dal convento, per siglare degnamente questo bel viaggio, ho deciso di concedermi un lussuoso pranzo, uno vero, al posto degli spuntini rimediaticci dei giorni scorsi.


Della cucina ferrarese ho assaggiato poco, devo ammetterlo. Quando viaggio, solitamente sono abbastanza frugale, raramente mi concedo delle lunghe soste al ristorante, e meno di non essere in compagnia.
Più facilmente mi fermo in una pasticceria o in una panetteria, mi compro un dolce o un pane particolare, del succo di frutta, e mi accomodo in un posto bello, magari in mezzo al verde, su una panchina al sole caldo, e mi godo fino in fondo il momento, mescolando il piacere dei sapori con quello della vista.

Stavolta, per il primo pranzo, appena arrivata, dopo una breve pausa in locanda per mollare i bagagli e disfare brevemente quel poco che mi sono portata, mi sono infilata in una anonima gelateria, che però aveva il pregio di essere vicina al B&B e di avere dei tavolini al coperto a cui sedersi: sotto una pioggia battente, non avevo voglia di gironzolare alla ricerca di qualcosa di più elaborato anche se, invero, il freddo con cui mi ha accolto la città non è che invitasse proprio ad un pranzo a base di gelato. Però mi bastava che fosse vicino e all’asciutto.

E poi mi ero resa conto che m’era presa una voglia inusuale, almeno per me: una coppetta nocciola e pistacchio. Inusuale perché non prendo mai la coppetta, che mi sa tanto di gelato confezionato un po’ tristanzuolo, (quelli che tanti anni fa si prendevano al bar per mangiarli a casa, te li davano in una bustina di carta con una fila di cucchiaini di plastica, e c’erano solo due gusti, fragola e limone oppure panna e cioccolato): adoro invece il rumore scrocchiarello della cialda che si sbriciola sotto i denti, per me il vero gelato è il cono, un cono lussureggiante di colori e di panna, non c’è proprio storia (a meno di non andare da Giolitti al laghetto dell’Eur e concedersi una di quelle coppe megagalattiche, che bastano per pranzo e cena).

Nocciola e pistacchio, poi, che orrore…quanto tempo sarà che non mangiavo questi gusti?
Poi mi sono ricordata di quando ero piccola, prima che uscissero queste megagelaterie, con le vasche rigonfie di gusti esotici e creme stravaganti.
All’epoca il gelato sfuso si vendeva nei Bar Pasticceria, solo lì e solo d’estate, quando veniva tirato fuori all’uopo un piccolo frigorifero, c’erano con due o tre misure di cialda ( il cono più piccolo costava 150 lire, se non mi ricordo male, quando arrivò a 500 cominciammo a scuotere la testa, commentando “ che tempi, ma dove andremo a finire?”), ed i seguenti gusti, rigorosamente questi: fragola, limone, crema, cioccolato, nocciola e pistacchio (qualche volta anche la stracciatella, ma non sempre), a pasta densa, di colore pallido, spento, senza pezzi di frutta, sciroppi e abbellimenti vari, simili in qualche modo ai gelati sovietici che ho assaggiato anni più tardi, quelli ancora più pallidi e austeri, venduti dentro baracchini di vernice bianca scrostata, avvolti in tovagliolini di carta velina smerlata e dal sapore indefinibile, vagamente vegetale.
Se poi si voleva un gelato un po’ meglio, allora si arrivava fino al bar di san Callisto, proprio accanto a Piazza Santa Maria in Trastevere, che faceva un cioccolato speciale, scuro e profumato, una vera delizia (questo minuscolo bar è tuttora rinomato per il suo cioccolato, se passate da là non fatevi influenzare dall’ambiente semplice e un po’ dimesso).

E la panna, panna vera, non quella spremuta da una macchinetta, veniva conservata a parte, in un contenitore di metallo alto e stretto, ed adagiata delicatamente sul cono con un cucchiaio di legno.

Verso la fine degli anni settanta-primi Ottanta, con mia madre prendemmo l’abitudine di fare una passeggiata, sotto Natale, a Via del Corso, a vedere le vetrine addobbate e magari comprare gli ultimi regali, e divenne tradizione concederci un gelato in un lussuoso bar di Via della croce, un gelato a dicembre, una stravaganza delle più manifeste, a quei tempi.
Ora, ovviamente, non è più cosi, le gelaterie sono spuntate dappertutto come funghi ed il gelato si mangia tutto l’anno, estate ed inverno ma, come dice saggiamente Nanni Moretti: ora ci sono le fragole tutto l’anno, le ciliegie tutto l’anno…ma che ricordi avranno questi bambini?

Passeggiando sotto un bel sole caldo, finalmente, ho incontrato sulla mia strada un ristorante sulla medievale Via delle Volte, forse la via più bella della città, assieme al Corso Ercole I. L’esterno mi stuzzicava molto, con la sua insegna in ferro battuto e i vasi pieni di fiori e di verde, e allora ho pensato che come ultimo saluto a Ferrara sarebbe stato perfetto.


Il Mandolino, questo il nome, è un ambiente veramente caratteristico, con le pareti piene di quadri, tele, stampe e specchi, nature morte, le eleganti dame di Boldini, mazzi di fiori, ventagli, spartiti musicali che ricoprono fino al soffitto a cassettoni, arredi in legno scuro di gusto country, pavimenti in cotto, credenze piene di bicchieri, arredi in ferro battuto, lampade e bugie, strumenti musicali, il tutto in una allegra e affascinante mescolanza, che rendono questo posto caldo e accogliente, ancor di più per la familiarità con cui viene accolto il cliente.

Nonostante sia ora di pranzo, sono ancora l’unica cliente, e chiedo di poter fotografare il posto.


La proprietaria è una signora gentile e molto orgogliosa del suo ristorante, che ha curato in ogni minimo particolare, ed è contenta della mia curiosità e del mio interesse. Cominciano ad arrivare altri clienti, ed arriva anche la mia ordinazione, è ora di riporre la macchina fotografica, ma non senza aver immortalato quello che ho ordinato, alla luce soffusa delle lampade.

Qui finalmente ho avuto occasione di assaggiare uno dei piatti tipici di Ferrara, i famosi cappellacci alla zucca, dei grossi tortelli ripieni, conditi con sugo oppure burro e salvia: qui i cappellacci sono fatti a mano uno per uno , dalla cucina escono vassoi di questi tortelli appena fatti, cosparsi di semolino. (l’unico appunto che posso muovere a questo posto è che le porzioni, almeno per il mio appetito, non sono proprio abbondanti…anche se è la regola vorrebbe che un vero gourmet non si abbuffa mai, però…).
Ho assaggiato anche la coppia ferrarese, il pane tipico dalla forma curiosa, a quattro cornetti, la mollica morbida e l’esterno liscio e scrocchiarello, anche se sinceramente preferisco un tipo di pane più rustico, meno raffinato.

E per finire un’altra specialità, la torta tenerina al cioccolato, una specie di caprese bassa, spolverata con zucchero a velo e, in questo caso, accompagnata da crema fatta in casa ancora calda, gialla e densa, che si sposa a meraviglia col gusto pastoso della torta.


Le ultime ore nella città, uscita dal ristorante, solitamente sono quelle più noiose: il bagaglio, chiuso, è in deposito al B&B, si conta il tempo che rimane, passeggiando un po’ a caso, senza allontanarsi troppo, anche capitando in posti già visti ma a cui è bello dare un’ultima occhiata, magari col sole, dopo tanto grigiore...

E poi, alla fine, viene l’ora della partenza.
A questa città che mi ha accolto con generosità, con i suoi colori caldi e le sue persone gentili, le sue strade tranquille e gli incontri inaspettati, la bellezza che pervade ogni scorcio e la grazia con cui accompagna i suoi visitatori, un ultimo sguardo d'addio.
O, forse, solo un arrivederci.

giovedì 16 aprile 2009

I colori della città


Terzo giorno:

Umido come il primo, una pioggia aerea, quasi vaporizzata, ma che minaccia ad ogni passo di trasformarsi in scroscio, in tempesta tuonante, senza scampo.

Oggi è in programma la visita al quadrante meridionale della città: la meta prevista è il palazzo rinascimentale di Schifanoia, ma la strada da fare per arrivarci induce al vagabondaggio ozioso e sognatore. Dalla Cattedrale si dipartono della stradicciole assai graziose, che attraversano l’antico ghetto e poi scivolano dolcemente verso una periferia quieta, fatta di viottoli tranquilli, deserti, molto simile a quella dell’altro quadrante, dove ero passata il primo giorno.

Ogni vicolo, ogni incrocio invita alla scoperta, scenari aggraziati, prospettive invitanti, portoncini colorati e finestre piene di fiori: ogni angolo riserva delle sorprese, e ad ogni nuova stradina che si prospetta davanti agli occhi, si continua a camminare, col naso all’aria, per osservare tutto, per abbeverarsi di questi colori e di questi scorci antichi e curati.

Ferrara, come molte città del nord, è un luogo dai colori freddi e pallidi, soprattutto d’inverno: il cielo, l’aria stessa, la nebbia, il verde della campagna umida, il grigio limaccioso del fiume.
Forse è per questo che, su al nord, costruiscono case colorate, dai toni squillanti, persiane e infissi rossi o turchesi, intonaci gialli, arancio o azzurro mare, portoni in legno dipinto e cascate di fiori alle finestre.
Le città del sud, con i loro cieli tersi, il sole accecante, la vegetazione selvaggia che lussureggia ad ogni angolo della strada, non hanno bisogno di altro colore, e allora le case non possono che essere candide, quasi abbaglianti, nelle luminose estati meridionali.




Ferrara è una città dai colori caldi e saturi, usati in tutte le declinazioni: il ruggine, nocciola e rosso veneziano delle cortine laterizie che rivestono la maggior parte delle case, il rosso pompeiano delle tende a pacchetto (tutte uguali, in tutta la città, chissà perché), il giallo in tutte le sue mille sfumature: il giallo carico delle Forsizie che grondano dai suoi muri, quello dorato dell’ottone che luccica al sole, e poi i toni vividi dell’intonaco delle facciate, dal caldo arancio passando per l’ocra, il senape, il paglierino, fino al giallo squillante e freddo del limone, e ancora il legno dipinto dei portoni, rosa fragola, rosso rubino e vermiglione, le sue mille cassette postali, che spiccano vivide sui muri intonacati, e le biciclette, coloratissime anch’esse, quasi facessero parte dell’arredo urbano.

Le vie che ho incontrato hanno nomi poetici, antichi e originali come via Belfiore, via Madama, via del Giuoco del Pallone, via del Paradiso, via della Luna.

Sia i nomi sia il tipo di architettura e di articolazione stradale sono legati al passato medievale e rinascimentale della città. Poche testimonianze del barocco o del Settecento, almeno nel tipo di costruzione e decorazione, troppo leziosi e ridondanti per questi palazzi dalle linee semplici, rigorose e tuttavia aggraziate.

Maggiori gli interventi ottocenteschi, alcuni pezzi Art Nouveau di gran pregio, e poi un tipo di edilizia in stile, che richiama il periodo d’oro di Ferrara, e che viene chiamata “Neo-estense” per la fedeltà ad un modulo architettonico e decorativo che è rimasto praticamente immutato dal Quattrocento: piccole palazzine in cortina laterizia, finestre e portoni incorniciati da archi acuti o a tutto sesto, piedritti in pietra o cotto con decorazione scolpite, piccoli balconi in ferro battuto, logge, portici, colonne, decorazioni in terracotta.

Passeggiare per Ferrara è, invero, come fare un viaggio indietro nel tempo; difficile dire quanto ci sia di antico e quanto di moderno, in queste strade: perché i ferraresi sono riusciti, miracolosamente, a far convivere a meraviglia passato a presente, costruendo il moderno in maniera da fondersi col preesistente, riuscendo a mescolare sei secoli e più di storia, in maniera assolutamente armonica e ammaliante.

Ferrara e i suoi lampioni a lanterna, che evocano atmosfere ottocentesche, buie e brumose, vicoli deserti immersi nella nebbia, che pare quasi di udire rumori di zoccoli e ruote di legno che scivolano, di notte, sull’acciottolato sconnesso, e vedere misteriosi figuri intabarrati di nero aggirarsi per queste strade senza tempo.

Ferrara e i suoi caseggiati bassi, con le finestre piccole, le persiane dipinte a colori squillanti, ringhiere di ferro battuto ingentilite da graziose tendine e vasi di primule in fiore, edere e cascate di piante grasse. Ferrara città dai mille giardini, dai cortili segreti, orti e angoli nascosti dietro cortine impenetrabili, dalle lunghe mura di laterizi ricoperti di edera, le vecchie chiese sconsacrate e le piazzette caratteristiche, in cui è meraviglioso sedersi ad osservare il quieto viavai dei rari passanti, assaporando in pace la bellezza di questi vicoli carichi di storia.



Ferrara dalle mille biciclette, parcheggiate in ogni dove.

Biciclette di tutti i generi, piccole, grandi, moderne e lucidissime, oppure vecchie Grazielle dai colori pastello scoloriti, desueti modelli anni 40, con la vernice nera scrostata e il metallo corroso dalla ruggine, biciclette nuovissime oppure vecchie ferraglie d’altri tempi, perché anche qui, come dappertutto, ci sono le Ferrari e le utilitarie, ma poi la fatica è la stessa, in fondo la bicicletta è un mezzo democratico, egualitario.

E quanta invidia per i ferraresi ciclisti, veri equilibristi delle due ruote, che sembrano scivolare senza fatica sull’acciottolato traditore, e riescono a destreggiarsi, in caso di pioggia, con l’ombrello in una mano e guidare con l’altra, con invidiabile disinvoltura che deriva dalla lunga pratica, una pratica che inizia fin da bambini.
Non c’è via della città in cui non li vedi pedalare, questi fuoriclasse delle due ruote, imperiosi e sicuri, quasi spericolati, in pieno centro, nei parchi, nei viali della Certosa e lungo i terrapieni delle antiche mura, e di tutte le età: uomini in completi eleganti e borsa di cuoio, mamme con frugoletto montato sul seggiolino, universitari di tutte le etnie, ragazze alternative dalle sciarpe di lana fatte in casa, tessute in colori vivaci ed enormi borse a tracolla, giovani donne in gonna e tacchi a spillo, vecchie signore con stravaganti cappelli e busta della spesa, ed un anziano signore in pensione fermo colla sua vecchia bicicletta sotto il castello, quasi in contemplazione e che, occhieggiandomi curiosamente mentre fotografo quella meraviglia architettonica, mi confessa candidamente che abita a mezzo chilometro di distanza ma che, ogni giorno, passando qui davanti, non riesce a fare a meno di fermarsi, per ammirarlo come fosse la prima volta.





Sulla strada per Schifanoia, un’altra deviazione, seguendo l’ispirazione del momento: a fronte ad una costruzione recente, un fabbricato di vetro e metallo piantato su piloni di cemento, di un grigio deprimente ( si tratta della scuola Media Dante Alighieri), una visione anacronistica, un'abside in rovina e una parte della navata di una chiesa: sono tutto quello che rimane della Chiesa di sant'Andrea, distrutta dai bombardamenti del '44 e mai più ricostruita.

Rimasta in macerie, ormai invasa da vegetazione incolta ed edera avvinghiata alle antiche colonne, che le dona un fascino da abbazia dei racconti gotici, sembra una specie di memento mori per le generazioni successive, e chissà se i ragazzi di quella brutta scuola media di cemento, che abbandonano con disinvoltura le loro biciclette colorate all'ombra delle cupe rovine, le gettano mai più che uno sguardo distratto, ormai assuefatto alla visione di quello spettacolo di devastazione.


Schifanoia, cioè Schiva la noia, delizia destinata alla gioia dei signori della città, un piccolo divertissment estivo, entro le mura della città eppure, all’epoca, immerso nella campagna. A fronte dell’esterno, assai suggestivo e conservato alla perfezione, dell'interno, trasformato in Museo, non c'è rimasto poi molto, mura e affreschi a parte, nè arredi nè oggetti.
Quello che è rimasto, però, è stato riconosciuto nell'Ottocento come una pietra miliare del Rinascimento ferrarese, e cioè il famoso Salone dei Mesi, un ciclo pittorico portato a termine da artisti del calibro di Ercole de Roberti, Francesco del Cossa e che, da solo, vale la pena una visita (assolutamente vietato fotografarlo, mi spiace).

Sarebbe stato bello anche fare una capatina nel bel fabbricato detto di Ludovico il moro,che ospita il Museo Archeologico, ma anche questo aspetterà una prossima visita perchè ultimamente, pur con i miei studi di Archeologia e Arte come bagaglio culturale, mi sento inspiegabilmente più attratta dalla città vera, viva, coi suoi vicoli e le sue particolarità quotidiane, piuttosto che da muti reperti chiusi un teche di vetro.


Pranzo frugale in una friggitoria greca, una bettolina assolutamente fuori luogo in questi vicoli medievali: pavimentazione a grandi piastrelle blu mare e giallo sole, pareti candide trattate a calce e tavolini blu elettrico, nomi di piatti (Tzatziki, Moussakà, Pita, Baklava) che evocano il caldo, il mare e freschi pranzi estivi, alle pareti grosse fotografie dai colori saturi, il blu del cielo e del mare che si fonde col rosso acceso dei gerani e il bianco delle case candide di Santorini, proprio un sogno ad occhi aperti, in questa città grigia e bagnata, dai colori spenti e invernali.
Mi sono infilata in questo buchetto per sfuggire alla pioggia battente che mi ha investito subito uscita da Schifanoia.

Ero decisa a tornare alla Cattedrale per infilarmi vigliaccamente nel MacDonald’s, e passare un’oretta sgranocchiando patatine fritte e bisunte tra gli schiamazzi delle scolaresche che imperversano in città.
Poi, il pavimento così blu e i nomi evocativi nel menu esposto all’esterno, mi hanno convinto ad infilare la porticina di questo minuscolo bistrot dove, sul sottofondo di musica greca di sapore arabeggiante (una specie di versione locale di Gigi d’Alessio, più o meno), ti cuociono le patatine espresse, fritte e bisunte anch’esse, e crocchette di formaggio bollenti, delle palline di un formaggio misterioso, molliccio e salato, e allora per qualche minuto ti scordi del grigiore che avvolge ogni cosa e delle gocce che continuano a rigare i vetri appannati, e ti sembra di essere in un altro mondo, estivo e colorato.
Purtroppo, l’illusione dura un attimo.

La fidata Moleskine, compagna di tanti viaggi e peregrinazioni, mi ha abbandonato.

Mi ha seguito fedelmente per tutti e 3 i viaggi a Parigi, e poi le Dolomiti, la Toscana e l’Egitto: non grandi viaggi, d’accordo, però vissuti e sentiti più dei precedenti, forse per una nuova maturità e consapevolezza che mi sento di aver conquistato in questi anni e che mi fanno vedere le cose sotto una luce diversa, uno dei pochi pregi dell’età.
Mi spiace molto non avere ricordi scritti dei viaggi precedenti, sicuramente più lontani ed avventurosi. Ho molte fotografie, questo sì, e ancora una buona memoria, chissà che prima o poi non cominci a buttar giù qualcosa….nel frattempo, ho scritto le ultime pagine bianche sulla piccola e malconcia agendina, che verrà archiviata dopo un onorevole servizio.

Pensavo di comprarne un’altra identica, poi in una cartoleria in via Contrada della Rosa ho visto un volumetto di quelli in carta e cuoio, dal fascino un po' retro, e mi è sembrato, con la sua copertina delicatamente acquerellata a rose e scritte francesi in color seppia, adatto ai miei racconti un po’ sognanti, vergati con una scrittura un po’ tremolante, disordinata, visto che li scrivo al momento, sul posto, in posizioni solitamente poco comode, ma è l’unico modo per appuntare una visione, un’emozione nel momento stesso in cui la si prova, prima che ci sfugga dalla memoria.

Pomeriggio ozioso, senza una meta precisa.

Sono tornata in albergo con le patatine ed il formaggio che ballavano il sirtaki nel mio stomaco (forse era meglio un pranzo più leggero), bagnata come un pulcino e stanca.
Sono rimasta a poltrire sotto le coperte fino alle quattro, col caldo dei termosifoni che scongelava le mie membra infreddolite e doloranti, e sperando che la pioggia fuori dalla finestra si affievolisse, quanto meno; poi, sfidando le intemperie, sono uscita di nuovo. Lo scopo era passare il resto del pomeriggio con meno danni possibili, vagabondando senza una meta precisa, senza macchina fotografica e neanche la guida, solo una mappa per non vagabondare a vuoto in una zona sconosciuta anche se, per perdersi definitivamente a Ferrara, bisogna impegnarsi sul serio.
Ho preso una direzione insolita, invece di andare verso il centro ho attraversato il Viale Cavour e sono scesa verso la Darsena, verso il fiume.
Chiamano Ferrara città di terra e acqua: io sì di acqua ne ho vista tanta, ma tutta venire giù dal cielo, non mi pare che la città abbia un grande rapporto col suo fiume.

Ero curiosa di vederlo, invece, questo fiume, immaginandolo romanticamente come appare nella serie Nebbie e Delitti ( una delle poche fiction che adoro, ben fatta, con una fotografia fantastica ed atmosfere suggestive): però deve essere girata in luoghi diversi da quelli in cui sono andata io, perché di atmosfera suggestiva ne ho vista ben poca. Quel minimo che sono riuscita vedere, infatti, complice l’acquerugiola incessante e un grigiore plumbeo che incombeva minaccioso, è stato veramente deludente, se non squallido.
Della Darsena, il cosiddetto porto turistico, si vede solo un minimo affaccio sull’acqua, da cui si ammirano brutti palazzi sugli alti argini della riva opposta, che si specchiano sul canale burbero e limaccioso.
La via che costeggia il fiume è un susseguirsi di piccoli condomini di periferia, parcheggi, magazzini in disuso e capannoni in rovina, tra prati abbandonati ed incolti, reti divelte e ristoranti chiusi, quasi desolati: aria di abbandono che mi ha ricordato, in qualche modo, la malinconia del mare d’inverno, con le sue serrande abbassate, i locali dalle finestre sprangate, il colore metallico dell’acqua, il vento umido e l’aria gonfia di pioggia, ma senza averne quell’atmosfera romanticamente charmante.

Ho passeggiato mestamente sotto l’ombrello, a passo svogliato, avvertendo una malinconia incombente salirmi da dentro, forse a causa delle scarpe bagnate e i vestiti umidicci, e sono tornata velocemente verso il centro. Centro quasi deserto, tranne qualche frettoloso passante, luci ed insegne spente, solo qualche rara, coraggiosa bicicletta che rotola veloce verso casa, e sparuti gruppi di studenti in gita che cercano di ripararsi sotto i portici, dentro un MacDonald’s affollatissimo oppure infilati dentro caffè e bar, chiassosi, annoiati e anch’essi bagnati.

Ho vagolato sotto il mio ombrello sull’acciottolato viscido, scivoloso, zigzagando tra enormi pozzanghere, e prima delle sei ho deciso di tornare nella mia stanza, ormai vinta, a riposo, al riparo, solo in attesa di fare i bagagli, per il mio ultimo giorno di vacanza in questa bella città.


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