I miei viandanti

lunedì 30 marzo 2009

L'infinito viaggiare, da nessuna parte ed in ogni luogo

Ogni primavera, da qualche anno a questa parte, mi concedo uno spazio personale, privatissimo, un viaggio in solitaria che programmo accuratamente e la cui idea mi accompagna per mesi, prima e dopo, come un talismano contro la noia e la malinconia dell’inverno.

Sono ormai tre anni che prendo il treno e arrivo a Parigi, sempre in un giorno di primavera: la fortuna ha voluto che in ogni viaggio il sole splendesse caldo su questa città meravigliosa, che ad aprile è un tripudio di bellezza e di fiori colorati. Sono cinque giorni magici, un viaggio alla ricerca di bellezza, di atmosfere, di luoghi sconosciuti, e non importa che sia sempre nello stesso luogo, perché di conoscere non si finisce mai, c’è sempre qualcosa che ti sfugge, oppure che che vuoi riassaporare, sentirlo tuo.

Dicono che Parigi sia la città degli innamorati ma, ne sono intimamente convinta, credo la città sia più adatta ad essere visitata in silenzio, per immergersi fino alla punta dei capelli nei colori e nella suggestione dei suoi vicoli secenteschi, nella confusione variopinta dei suoi boulevardes, nel silenzio magico dei suoi cimiteri.

Quest’anno la mia meta sarà più vicina, principalmente per ragioni economiche: tornerò a Ferrara, città che ho visitato quattro anni fa e che mi aveva molto colpito per la sua bellezza calda e quieta, i suoi mattoni e i tetti rossi, il bellissimo e fatiscente cimitero della Certosa, il Museo di Boldini, e che rivedrò volentieri in maniera più approfondita (anche se è prevista pioggia per tutti e quattro i giorni del mio viaggio, una specie di nuvola di Fantozzi, e ti pareva).

Partirò domani, ho prenotato un grazioso B&B e treno e sto già organizzandomi mentalmente (tipo lista delle cose da fare, Guida michelin, che mi porto da vestire, quanto farà freddo rispetto a Roma etc…).

I preparativi per un viaggio sono tra le cose che adoro fare, elenco mentalmente tutte le cose che servono, mi studio la guida per assaporare in anticipo tutte le cose che voglio fare, pianifico itinerari (che poi non sempre rispetto) e mi informo sulle abitudini gastronomiche del luogo, pregustandomi saporiti spuntini in luoghi meravigliosi. Questa volta è meglio che mi organizzo anche su qualche museo in cui passare la giornata all’asciutto, ma che volete, quest'anno va così…
Viaggiare è una delle esperienze più belle, più emozionanti e creative e che si possano fare, sempre che si parta con spirito di adattamento e mente aperta, curiosità e senso dell’avventura.
Quando parlo di viaggio, ovviamente non intendo il tour organizzato, quello dove un gruppo di persone sconosciute viene scarrozzato in giro come un pacco postale, facendo ammirare in rapida sequenza monumenti, arte e storia come fossero cartoline o belle fotografie da guardare qualche minuto, e poi via, di nuovo verso un’altra destinazione.

C’è una differenza sostanziale tra turista e viaggiatore: il primo si ferma in superficie, non approfondisce gli aspetti meno ovvi del luogo, non riesce a cogliere l’intima essenza di un posto. Quello, solitamente, più interessato al negozio di Souvenirs o al ristorante, piuttosto che alla chiesetta sperduta in una valle amena. E’ quello che va a Sharm e pensa che quello sia l’Egitto vero, oppure che è convinto che Eurodisney sia meglio del Louvre, che di Amsterdam si ricorda solo i negozi a luci rosse, che si chiede cosa ci sia da vedere a Mosca, che dei cieli tersi e i colori freddi e struggenti della Scandinavia non ha goduto nulla, troppo preso dalle discoteche e dalle bionde nordiche.

Il secondo è quello che è spinto da una curiosità insaziabile, che scarpina per ore alla ricerca di un angolino suggestivo di cui ha letto in una guida, di una stradina di cui ha sognato in romanzo, di uno scorcio che ha ammirato in un film.

Come quando feci scarpinare ore la mia amica Pina alla ricerca di Alexander Platz, per scoprire poi che la piazza berlinese della bellissima canzone di Battiato consisteva in un supermercato e un megaparcheggio; tutta la strada fatta alla ricerca della Bahnof Zoo, per rivivere le atmosfere della decadente Berlino Ovest di Noi i Ragazzi dello Zoo di Berlino (Pina ancora mi odia); tutte le metro e le corriere, treni e cammino che abbiamo fatto, andando alla ricerca di tutte le statue di Lenin ancora esistenti nella Grande Madre Russia, quelle che ancora c’erano e anche il posto dove una volta c’era stata una statua di Lenin, te lo ricordi, Amanda carissima (la quale Amanda rischiò di farsi arrestare dentro la tomba di Lenin per troppo fervore, ancora sghignazziamo alle sue spalle)?

E ancora, quando andammo al tenebroso castello di Amleto, Elsinore, perduto nella desolata campagna danese, uno dei luoghi più suggestivi al mondo, reso impagabilmente dalla magistrale penna di Shakespeare ( e non importa che del castello originale ci siano rimaste solo le fondamenta, la suggestione del luogo non cambia) .
I paesaggi incantati della Bretagna e della Normandia, che Rohmer ha immortalato in maniera così poetica nel bellissimo Racconto D’estate, gli angolini più segreti raccontati in Incontri a Parigi, l’umida gita in battello sul Canale Saint Martin, alla ricerca della leggerezza soave di Amélie.

Le ore sotto il sole impietoso del deserto di Luxor, insieme al nostro professore di Egittologia, arrancando faticosamente sulla roccia calcarea e friabile del deserto di Luxor, solo per vedere dall’alto il Tempio di Hatpshesut, incastonato nelle montagne, una delle emozioni indimenticabili della mia vita.

Il vero viaggiatore è quello non si ferma all’apparenza, quello che rifugge dai monumenti pieni di gente e dalla calca che affolla i luoghi famosi e ovvi: che magari va alla scoperta dei quartieri periferici di una città, come quando finimmo nei quartieri operai alla periferia di Mosca, quando viaggiavamo per San Pietroburgo su filobus degli anni 40, che ogni volta che il filo si staccava l’autista fermava la vettura, saliva con la scaletta sul tetto, lo riagganciava e finalmente si ripartiva; o quando prendemmo un treno di terza classe nella taiga russa, con i vagoni di almeno cinquant’anni prima, coi sedili di legno e le vecchie contadine con il foulard in testa e la gabbia piena di galline accanto, e tutte guardavano i nostri jeans e gli zaini Invicta assolutamente fuori posto, in quel luogo.

Quando a Praga, nel 1989, facemmo due ore di fila fuori dal negozio chiuso per accaparrarci un vaso di cristallo da portare alla mamma (ce n’erano solo due in tutto il negozio), e la sera andavamo in giro con le truppe russe che pattugliavano le strade deserte, e qualcuno si mise spericolatamente a cantare Bandiera rossa in piena notte sul Ponte di Carlo: e poi tornare dieci anni dopo e trovare una città irriconoscibile, piena di fast food, di negozi di souvenir e di locali a luci rosse.
Che nostalgia quella Praga magica e decadente, ancora ottocentesca, ancora inviolata.

Oppure le macerie e le case mezze distrutte a Berlino est, poco dopo la caduta del muro, i teschi alle finestre sprangate ed un’aria di desolazione, di squallore, camminare a vuoto per strade deserte, tra palazzoni di cemento grigio e condomini fatiscenti, e cercare di immaginarsi la vita oltre un muro, oltre quel muro.



Il vero viaggiatore è quello che disdegna i ristoranti per turisti con menu internazionali, e cerca la bettolina in una stradina di un quartiere qualunque, dove mangiano quelli del luogo, che non cercherebbe mai un piatto di fettuccine o una pizza in un paese straniero, per assaggiare le specialità locali, magari dai nomi impronunciabili. E avrebbe sicuramente piacevolissime sorprese, perché non mi è mai capitato un paese in cui non sia riuscita a trovare nulla di mio gradimento, anzi, di solito torno dai miei viaggi praticamente rotolando.

Anche i ricordi culinari sono sempre associati ad un luogo particolare, ad un momento speciale che rimane impresso nella memoria.

Può essere la mielosa paspousa mangiata rigorosamente con le mani fuori da una pasticceria del Cairo, o i dolci russi dagli ingredienti misteriosi nella fredda San Pietroburgo, nell’albergo sulla Prospettiva Nievsky; la cremosa minestra di semolino servita per colazione a Mosca, calda, dolce e burrosa; oppure il formaggio panato e patate fritte in un pub di un paese sperduto della Valacchia, il golosissimo yogurt al cioccolato bevuto seduti al porto di Rotterdam, lo strudel caldo e speziato nei rifugi delle Dolomiti, il croissants aux amandes comprato in una Boulangerie di Montmartre e mangiato all’ombra de Le Sacre Coeur, la pita con i felafel comprata nella via ebraica Rue de Rosiers e addentata avidamente sui gradini di una chiesa del Marais, il pane all’uvetta della fredda e umida Oslo, la pizza enorme gustata nella pizzeria da Michele, a Napoli, un antro enorme dai soffitti altissimi, con lunghi tavoli di marmo e le tovaglie di carta, ma che delizia di pizza, alta, soffice e verace, una delle migliori pizze mangiate in vita mia (se capitate a Napoli, non potete perdervela); le focacce pugliesi con pachino e olive nere, oliose e soffici, mangiate agli scavi archeologici, mescolate alla polvere dei millenni, sotto un tendone di fortuna nel bel mezzo del Tavoliere .

E ancora, il gusto insolito della frittata cosparsa di miele di un posto sperduto in mezzo al paesaggio brullo delle montagne cretesi, l’insalata di mais in Normandia che la mia amica Pina ha condiviso con un uccellino che si era tranquillamente accomodato sul tavolo e sbecchettava direttamente dal suo piatto, senza alcun pudore; la granita di caffè con la brioche calda alle nove di mattina in una piovosa estate siciliana sotto l’Etna e le cialde con la Nutella di Bruxelles, nel plumbeo e piovoso Belgio.

Viaggi solitari, dicevo.

Una persona accanto ti distrae, ti impedisce di essere intrisa in ogni fibra dell’anima dai colori, i sapori e gli odori del luogo.
E poi cosa c’è di meglio di partire alla scoperta di un posto sconosciuto, avendo come unica compagnia la fidata macchina fotografica e la Moleskine, sempre la stessa, ogni anno più malconcia e con la copertina nera ormai consunta, su cui scrivere, al momento, pensieri indirizzi, ricordi, nomi di strade e percorsi fatti, impressioni fugaci appuntate al volo, una cronaca affascinante e immortale di attimi che rischiano di perdersi confusamente nella memoria.

Sono stata moltissime volte a Firenze, ad esempio, ma i ricordi più preziosi sono quelli dei giorni che vi ho passato da sola: una deliziosa pensioncina in Piazza Santa Maria Novella; la giornata persa a vagabondare oziosamente per le stanze degli Uffizi, a bere con gli occhi la bellezza rinascimentale di Botticelli, senza riuscire a stancarsene, e poi quel tardo pomeriggio umido e freddo, in una Santa Croce deserta e quasi buia, le ombre che si posavano sul marmo come polvere, nel silenzio spettrale, mentre il sole calava velocemente dietro le vetrate.

E Boboli, i suoi viali ammantati di foglie, nella malinconia dell’autunno; Venezia e i suoi ponti e i suoi cristalli nelle vetrine luccicanti; Napoli, il suo lungomare baciato dal sole, i fritti oliosi e lussuriosi di Via Toledo e i vicoli maleodoranti di Spaccanapoli; le stradicciole selciate medievali di Viterbo in una primavera fiorita di azalee, e quella chiesetta minuscola in una valle solitaria, sperduta e diroccata, inaspettata e incongrua, con la sua campana muta e il portone sbarrato, chiuso forse da secoli.

Adoro viaggiare da sola, anche in posti vicini, anche una fuga di una giornata, oppure una gita nella mia stessa città, come non l’avessi mai vista, come ogni cosa fosse nuova per me: è come un giorno di sole durante una settimana di pioggia, ti solleva e rinfranca l’anima, ti fa immergere in un mondo di sogno, almeno per qualche ora.

E allora, arrivederci al mio ritorno…

giovedì 26 marzo 2009

Un girasole giallo come il sole


In questi giorni sono successe un sacco di cose, e allora ho avuto poco tempo di scrivere, ma non per questo me ne sono stata con le mani in mano, mica stiamo qui a pettinare le bambole, che vi credete....

Da un lato parecchi giorni di lavoro che mi hanno stancato non poco e un'influenza intestinale, l'ennesima, che mi ha atterrato sabato e domenica (sto ancora a patate lesse e mozzarella, però la linea ne ha guadagnato, ragazzi, sono a quota -4, e si vede, modestamente), però ho compensato con una ottima notizia al lavoro (finalmente la mia promozione diviene effettiva e non solo virtuale, dopo un anno di c**o) e poi ho prenotato il mio viaggetto primaverile in solitaria a Ferrara per la prossima settimana, di cui parlerò prima di partire.
Direi che non mi posso lamentare, tutto considerato!



Questa torta gialla a base di farina di mandorle e di mais è stata fatta nel mio nuovo meraviglioso stampo a girasole, in silicone, che avevo invidiato alla mia collega Alessandra...ho seguito il consiglio di Fiordisale e sono andata a curiosare nel seminascosto negozio di casalinghi Peroni, a Piazza dell'Unità, un seminterrato in una traversina di Via Cola di Rienzo (si chiama Piazza dell'Unità non capisco perchè, visto che è una traversa minuscola...).

Comunque, dentro c'è il paradiso della pasticcera, un assortimento di stampi, forme per biscotti e teglie in silicone veramente interessante, mi sono dovuta trattenere sennò mi portavo via tutto.


Però non ho resistito a questo stampo (che era proprio quello che cercavo), poi ho copiato Fiordisale scegliendo la teglia per crostate di forma rettangolare che lei aveva illustrato, con fondo estraibile ( però la devo ancora sperimentare), e poi mi sono concessa un lussuoso tagliabiscotti tondo da occhio di bue e uno stampino a forma di cuore per farci il buco (nell'occhio di bue). Purtroppo ho avuto poco tempo, ma presto vi inonderò di crostate e di biscotti elegantissimi a forma di cuore, promesso....

Nel frattempo, mentre sto già mentalmente preparando i bagagli e consultando cartine e guide turistiche (che mi porto? Farà più freddo che a Roma? e se piove? ), vi lascio con questa torta solare e primaverile!

E' una ricetta che ho trovato tempo fa sul supplemento del Sabato di Repubblica, solo che ho dovuto aggiungere latte e liquore perchè l'impasto era troppo solido, però è venuta buonissima lo stesso (sempre 'ste ricette balorde...)


Per una teglia da 24 centimetri ( la mia prevede la capovoltura del dolce, la ricetta originale no)

100 grammi di mandorle senza buccia
125 grammi di farina 00
125 grammi di farina di mais (io ho usato la fioretto)
80 grammi zucchero+un cucchiaio
50 grammi burro sciolto
3 uova
3/4 bicchiere di latte
due cucchiaini di lievito per dolci
un pizzico di cannella
due cucchiai di liquore

Frullate le mandorle nel frullatore con un cucchiaio di zucchero e riducetele in polvere.

Montate a neve le chiare con un pizzico di sale e mettetele da parte.

Montate i tuorli con lo zucchero con le fruste elettriche, quindi aggiungete il burro sciolto, il latte e il liquore.

Cominciate ad aggieungere la farina mescolata al lievito, la cannella, quindi la farina di mais e in ultimo incorporate la farina di mandorle. Poi, con un cucchiaio di legno, cominciato ad incorporare le chiare montate a neve, delicatamente per non smontarle.

Rovesciate nello stampo imburrato ed infarinato (nel mio caso no), e mettete in forno caldo a 160 gradi per circa 30-35 minuti (fate attenzione perchè si cuoce subito e si brucia sotto)

Sformatelo una volta freddo e spolveratelo di zucchero a velo.

martedì 24 marzo 2009

L'ultima zuppa della stagione


Che ne dite, ormai quasi ci siamo?
Direi di sì, nonostante la tramontana di questi giorni, gli strascichi di questo gelo marzolino non possono durare a lungo.

Anche se ancora si ha voglia di cose calde, rassicuranti e consolatorie, ma sarà ancora per poco...almeno speriamo.
Dopo la tirata polemica di cui sotto, oggi sarò breve, anche perchè ho avuto poco tempo per pensare qualcosa di più intelligente, visto anche le influenze che ormai mi colpiscono a ripetizione e che mi riducono una specie di larva umana, sempre nel week end libero, ovviamente...altro che vendetta di Montezuma, come mi ha saggiamento consigliato la mia amica Teodora, mi sa che invece che a Parigi mi converrebbe un bel viaggetto a Lourdes. Magari l'anno prossimo...

E allora, ecco una Minestra di riso, zucca, latte e piselli, che in quanto a colore non ha nulla da invidiare ai piatti più primaverili.

Ho ripreso la ricetta della minestra di zucca che mi era piaciuta tanto di Polinnia e l'ho adattata ai piselli, ed il risultato è stato gustoso e leggero.



Per 2-3 persone

60 grammi di riso a persona
300 gr piselli surgelati
200 grammi zucca pulita
Un pezzetto di cavolfiore lesso (facoltativo)
Carota, cipolla e sedano
300 cl latte
3 biccheri d’acqua

parmigiano

Tagliare a pezzetti tutte le verdure, quindi metterle in pentola con l'acqua e farle bollire per circa 20 minuti, poi aggiungere il latte e il cavolfiore lesso, e frullare con frullatore ad immersione ma non troppo, per far rimanere rustica la minestra.

Rimettere a bollire e salare, quindi aggiungere il riso, mescolando spesso per non farlo attaccare.

Consiglio di tenere sempre del latte non freddo per allungare un poco la minestra, nel caso si addensasse troppo.

Continuare a mescolare ogni tanto per i 15 minuti di cottura del riso, quindi spolverare con parmigiano e servire subito.

sabato 21 marzo 2009

Quando l'incuria diventa un crimine

Oggi, ufficialmente, entra la primavera.

A Roma c’è un bel sole, ma un vento di tramontana che ti taglia la faccia, e una temperatura polare, altro che primavera.
Però oggi non vi voglio parlare solo del clima, che va tutto a rovescio, ma di quello che sta succedendo di orribile in Sicilia.
In questi giorni mi hanno molto colpito il ragazzino morto e la turista tedesca in fin di vita, sbranati da un branco di cani selvaggi, e mi chiedo se sia una situazione degna di un paese civile: purtroppo ultimamente me lo sto chiedendo sempre più spesso e la risposta è sempre la stessa, che no, non lo è, assolutamente.

Penso di essere del tutto immune da ogni accusa di anti animalismo , visto che sono vegetariana da nove anni, adoro gli animali, ho due gatti che sono come figli, e ho avuto cani, gatti, uccelli e tartarughe, però questa situazione è veramente fuori controllo, intollerabile.

Nel 2000 andammo in vacanza in Grecia, dove mi capitò un’esperienza simile, fortunatamente senza danni se non uno spavento terribile.
Eravamo in viaggio di ritorno verso Patrasso, dopo una notte in traghetto da Creta ad Atene, era mattina presto, mi pare intorno alla sei, e dovevamo far colazione ma non riuscivamo a trovare un bar aperto.
Usciti dal porto, ci fermiamo in una strada periferica della città, praticamente deserta: mio marito parcheggia la macchina ed io scendo e attraverso la strada per raggiungere un chiosco aperto che vende dolci, bibite e giornali, per comprare qualcosa da mettere nello stomaco, un dolcetto, magari un caffè, un succo di frutta.

Faccio pochi passi, sono al centro della strada deserta, quando vedo arrivare di corsa, proprio nella mia direzione, un branco di almeno 15-20 cani, tutti di taglia grossa: attimo di terrore, la macchina è troppo lontana per raggiungerla in pochi secondi e il chiosco dall’altra parte della strada pure: mio marito dalla macchina mi dice di non muovermi, di rimanere ferma, ed io rimango al centro della strada, in piena crisi di panico, aspettando che il branco mi raggiunga, immobile, col cuore impazzito dal terrore.
Sono stati i secondi più lunghi della mia vita: fortunatamente il branco si apre in due, durante la corsa, passandomi a pochi centimetri di distanza e mi supera, io cerco di non guardarli neanche, poi lentamente faccio qualche passo verso la salvezza, e arrivo al chioschetto con le gambe che mi tremano, il cuore che mi batte all’impazzata, sull’orlo di una crisi nervosa.

Quell’estate, in Grecia e a Creta, avemmo più volte modo di inveire contro quel paese meraviglioso, tanto bello quanto sciatto, rovinato da colate di cemento, incuria, degrado, e i cani randagi che si vedevano ovunque non erano che il tocco finale di una politica di devastazione del territorio che ci aveva lasciato stupefatti e disgustati: nella splendida Creta dal mare blu profondo e le immense spiagge ventose, in quella terra baciata dal sole e ricca di storia, abbiamo visto chilometri e chilometri di litorale brullo e deserto e incontaminato chiusi al passaggio, inaccessibili, con scheletri di cemento di condomini costruiti selvaggiamente a pochi metri dalla riva, senza riguardo per la bellezza di quelle coste rocciose .

Rimanemmo veramente delusi da quell’esperienza cretese, soprattutto in virtù del fatto che vi siamo rimasti ben venti giorni, girandola in lungo ed in largo con la macchina, e non la solita settimana nei posti turistici, dove si vedono solo le cose belle e non il rovescio della medaglia. L’unica parte ancora selvaggia e incontaminata sono le montagne dell’entroterra, luoghi impervi, vegetazione scarsa, greggi di capre al pascolo e gole ventose.
Turisti, zero, per questo quei posti riescono ancora ad essere silenziosi e suggestivi.

Quando nel 2001 andammo in Sicilia, ci trovammo in una situazione praticamente identica, se non peggiore: avevamo scelto un posto poco turistico, al mare ma sotto l’Etna, tra Giarre ed Acireale.
Catania e Siracusa, che trionfo di barocco, anche se fatiscente e meritevole di ben altre attenzioni, e che lussuria il cibo, abbiamo assaggiato tutto, latte di mandorla, granita di caffè con brioche, il pane condito, gli amaretti, dolci di ricotta, gli spaghetti alla Norma.

Ma in quanto a mare e paesaggio, che delusione. La zona tra Messina e Siracusa è una striscia di cemento senza soluzione di continuità, paesini moderni e squallidi che si susseguono ininterrottamente per decine di chilometri, stradicciole strette, maltenute, accesso al mare impossibile in ogni dove e, quando si apre un pertugio per arrivare ad un pezzetto di spiaggia non privata, che incuria, che squallore…abbiamo visto condomini di cinque piani costruiti praticamente in riva al mare, in spregio a qualsiasi vincolo paesaggistico.

Noi eravamo in un agriturismo, appena fuori Riposto, quello che dalle foto sembrava il luogo perfetto, in mezzo al verde, a pochi passi dal mare e con accesso diretto alla spiaggia.
In realtà, la spiaggia consisteva in pochi metri di ciottoli impraticabili senza scarpe, circondati da mura di cemento grezzo e condomini di cinque piani, il mare di un colore incerto, poco promettente, la qualità dell’acqua a dir poco dubbia.

Il luogo immerso nel verde era in verità una foresta di eucalipti e banani lasciata a sé stessa, che si attraversava per andare al mare, e poi un orto con qualche albero di agrumi davanti al nostro appartamentino.

Il tutto situato in un posto sperduto nel nulla, tra casette anonime e una frazione minuscola senza alcunchè di rilevante, in cui non era neanche consigliabile andare in giro da soli: ho provato un paio di volte a mettere il naso fuori, per fare una passeggiata solitaria (adoro camminare da sola) e me ne sono tornata velocemente dentro l’agriturismo, viste le occhiate strane dei ragazzi che mi giravano intorno in motorino e addirittura gli apprezzamenti pesanti di un vecchio con tanto di moglie accanto in macchina.
Essere guardata con un animale raro non è proprio piacevolissimo, mi era capitato solo in Egitto, non pensavo di provare le stesse sensazioni nel nostro sud.

In un impeto di ingenuo entusiasmo, avevo visto che c’era una ferrovia che in pochi minuti portava in luoghi più frequentati, verso Acireale oppure verso Taormina, e mi ero illusa di poter prendere il treno ed andarmene gironzolando per negozi di ceramiche per conto mio (vista la scarsa inclinazione di mio marito per questo genere di cose): entrata nella stazioncina fuori mano, per un attimo ho avuto un dejà vu, mi sembrava di essere tornata a Novgorod, in mezzo alla taiga russa, l’edificio quasi in rovina, i binari deserti, le impalcature con due operai svogliati, neanche uno straccio di cartello con gli orari…un’immagine di desolazione e abbandono degna di un paese da terzo mondo.
Ho girato incredula per la stazione cercando gli orari dei treni, alla fine mi sono rivolta agli operai che già mi guardavano come fossi un po’ toccata, i quali mi risposero candidamente che gli orari non ci sono (si va lì e si aspetta che passi il treno?), la biglietteria è chiusa e l’unico posto dove si può comprare il biglietto è una tabaccheria fuori ma al momento chiusa, oppure si deve tornare in paese.

Sono tornata sconsolata all’agriturismo, sentendomi prigioniera di quel luogo, un posto dove se non hai la macchina non vai da nessuna parte, e se non hai la macchina e sei di sesso femminile non vai da nessuna parte ancora peggio…

In tutto questo, anche lì abbiamo visto moltissimo cani randagi, che gironzolavano indisturbati per le campagne, come in tutto il sud. Io adoro il nostro sud dalla bellezza lussuriosa e struggente, ma mi chiedo come sia possibile che nel nord funzioni (quasi) tutto bene, e non si avverta mai quell’incuria e quel degrado che affligge le nostre belle terre meridionali, e come è possibile che siano proprio gli abitanti ad accanirsi contro le bellezze di cui quei posti sono così ricchi, un patrimonio incalcolabile che dovrebbe essere la più grande risorsa, da mantenere intatta e meravigliosa.

Mai ci è capitato in Trentino od in Veneto di vedere scempi edilizi come quelli visti in Sicilia, e neanche il trattamento vergognoso riservato ai cani: non che io sia favorevole ai canili-lager, ci mancherebbe, mi si è lacerato il cuore quando sono andata al nostro canile di Porta Portese a cercare il piccolo Golia, nostro amatissimo cagnolino perso e mai più ritrovato nel 1989 (ancora ce lo rimpiangiamo), a vedere quelle gabbie e a sentire quegli uggiolii mi sono dovuta forzare a non portarmeli tutti via, sono uscita da quel posto con le lacrime agli occhi.

E allora benissimo le campagne di prevenzione dell’abbandono, la sterilizzazione e tutto il resto: ma il problema rimane, non si può far finta che non esista; e lasciare branchi di cani liberi o peggio, lasciare che vengano maltrattati, incattiviti e tenuti in condizioni crudeli come è successo a Scicli, nell’indifferenza totale delle istituzioni, è un vero crimine, qualcuno dovrebbe pagare per questo, o quanto meno vergognarsi fino al midollo: il sindaco, la giunta, tutte le istituzioni del territorio e pure i cittadini stessi, perché accadimenti terribili del genere non sono frutto del caso, ma della mancanza di sensibilità collettiva, dell’indifferenza che è una delle piaghe del nostro paese.

La cura dell’ambiente, del paesaggio non è un vezzo o un lusso, dovrebbe far parte del nostro codice morale e civile, così come il rispetto e la cura degli animali: rispetto che va dai trattamenti meno crudeli che andrebbero riservati agli animali allevati ( e mi riferisco anche alle condizioni di allevamento delle galline, di cui ho già avuto modo di parlare) alla costruzione di canili dignitosi, dove gli animali non siano trattati come carne da macello, nella sporcizia e nel degrado, e dove non imparino ad odiare gli esseri umani che possono essere, e spesso lo sono, assai più crudeli di loro.

lunedì 16 marzo 2009

Torta di segatura



In questi giorni ho trascurato un po' tutto, il blog, le foto, gli aggiornamenti e tutto quello che riguarda la casa.

Ho avuto un po' di giorni di riposo e il tempo si è mantenuto così bello, le giornate calde e soleggiate, che ho mollato tutto e sono stata a spasso, gironzolando per il centro di Roma, senza neanche la macchina fotografica, semplicemente passeggiando senza meta, godendomi il sole come una lucertola e la bellezza che mi circondava come fossi uscita dal letargo, dopo un freddo e umido inverno.



Poi, però, siccome tutto si paga, ho avuto un week end faticosissimo al lavoro. Va beh, è passata anche questa, spero di rifarmi il prossimo finesettimana.



Tra le poche cose che ho cucinato nei giorni scorsi, ecco la Torta di segatura.

Eh sì, avete letto bene, il nome della torta è proprio questo, ed è stato proprio il nome piuttosto insolito a convincermi a provarla...deriva dall'uso del pangrattato nell'impasto, che rende la pasta un po' granulosa e rustica. Mi ero preparata ad un sapore strano e magari ad una consistenza dura, ed invece rassicuratevi, è buonissima, morbida e umida a causa delle mele che la torta contiene. E' una ricetta presa dall'Enciclopedia della Cucina di Repubblica.

E' anche un ottimo metodo per riciclare pane o pangrattato vecchio.




Teglia a cerniera da 24 centimetri:

22o grammi di pangrattato

600 grammi di mele

200 grammi di zucchero (anche di canna)

70 grammi di burro

4 uova

1 bustina di vanillina

mezza bustina di lievito

due cucchiai di liquore


Tagliare a tocchetti le mele sbucciate, mettetele in una padella antiaderente con 50 grammi di burro, due cucchiai di liquore e 100 grammi di zucchero, e fatele cuocere dolcemente per circa 15-20 minuti a coperchio semichiuso, mescolandole spesso con un cucchiao di legno, fino a farle disfare ma senza troppo asciugarle.

Aggiungere a questo impasto di mele 200 grammi di pangrattato, le uova intere una alla volta, mescolando con le fruste elettriche, lo zucchero rimasto, la vanillina e il lievito.

Versare nella teeglia imburrata e cosparsa di pangrattato, sistemate bene l'impasto sodo con un cucchiaio, e cuocere nel forno caldo a 180 gradi per circa 45 minuti, sul secondo ripiano dal basso.

Sformate una volta fredda e spolverate con abbondante zucchero a velo.




In alternativa si possono usare pere o la polpa di 2 banane.

giovedì 12 marzo 2009

Torta Yogurt e Pinoli di Alessandra


Oggi sono entrata, e il contatore segnava la mia prima cifra a 6 zeri...ma grazie!! Ancora mi sembra incredibile,non so neanche io come ho fatto ad arrivare, in un anno e mezzo scarsi, a questa cifra favolosa, incredibile...

Va beh, finiamola con l'autocelebrazione, e continuiamo a scrivere qualcosa di pseudo-intelligente, almeno ci si prova...


Qualche giorno fa mi sono messa alla ricerca di un negozio di alimenti biologici in zona, e ho scoperto di avere a poca distanza Naturasì, di cui avevo letto in giro: cercavo delle farine particolari, i semi per fare germogli e anche degli agrumi per farci le marmellate...

L’ambiente è carino, poi ci sono un sacco di cose profumate e misteriose, tisane, cereali e legumi di tutti i tipi, farine le più diverse, tutte chicche introvabili altrove…
Però, ragazzi, cavoli: se in un supermercato normale ci lasci lacrime e sangue, lì non ti basta il bancomat, ci vuole un mutuo per fare la spesa.

Leggo in giro per i vari blog che parecchie persone utilizzano solo alimenti biologici, però mi chiedo come sia possibile, di questi tempi e con uno stipendio medio, fare la spesa in un posto dove costa tutto il triplo, che già si fa fatica in quello normale.

Per fortuna l’estate abbiamo la produzione biologica di mio padre: pomodori, insalata, bieta, zucchine, melanzane, fagiolini, prugne, fichi, tutti di produzione casalinga: qualche volta mio padre non usa neanche lo stallatico secco, ma parte con mio marito con pala e secchi alla ricerca di concime naturale, che sulle montagne circostanti si trova a cumuli, visto che ci sono le mucche libere al pascolo. Anzi, c’è solo l’imbarazzo della scelta, vista la produzione abbondante che costella le brulle montagne intorno a Capranica, ci si può anche permettere di scegliere quella più fresca e invitante.
:-)
Mi sa che pure quest’estate, visto il prezzo che ha raggiunto lo stallatico (pure la cacca vale oro, ma dove siamo arrivati?), conviene tornare a spalare quella gratuita e genuina della mucche capranichesi.



E allora visto che per la produzione casalinga ancora c’è tempo, e visto che comunque una spesuccia anche se minima al supermercato biologico me la sono concessa, altrimenti era inutile esserci andati, ecco una meravigliosa torta con Yogurt biologico e pinoli, un dolce che ho rubato alla mia collega Alessandra, la quale l’aveva fatto in uno stampo al silicone a forma di girasole che le ho invidiato moltissimo, e che ho trovato solo dopo aver fatto la torta.

La prossima sperimentazione la farò nel nuovo stampo, vedremo che viene fuori.

Comunque, visto i tempi grami e visto anche il costo dei pinoli, mi conviene farmi una passeggiata a Villa Torlonia o a Villa Pamphili e raccogliermeli da sola, ne guadagnerà sia la linea che il portafoglio...


Per una teglia da 26 centimetri:

3 uova

300 grammi di farina (oppure 250 grammi farina+50 fecola di patate)

300 grammi di zucchero

2 yogurt

una bustina lievito

una bustina di vanillina

una bustina di pinoli (almeno 50 grammi)

un cucchiaio di liquore

zucchero a velo per spolverare



Battere i tuorli con lo zucchero, aggiungendolo poco alla volta (è parecchio, se lo mettete tutto insieme non si montano) e montandolo bene con la frusta elettrica, poi aggiungere lo yogurt.

Aggiungere il liquore e la vanillina.

Aggiungere poco a poco la farina mescolata al lievito, in ultimo le chiare montate a neve, mescolandole delicatamente con un cucchiaio di legno dall'altro in absso, per non smontarle.

Unire i pinoli.

Foderare con carta forno oppure imburrare uno stampo da 26 centimetri, infornare nel forno caldo a 160 gradi per 40 minuti (fate attenzione perchè tende a bruciarsi sotto).

Sfornare, rovesciare e spolverare con zucchero a velo.

martedì 10 marzo 2009

Benzone a colazione, l'energia per affrontare una dura giornata


Va beh, non si può vivere di sola insalata, per quanto colorata e buona possa essere!

Siccome la dieta non è una punizione, bisopgna ricordarsi che una piccola gratificazione si può anche concedersela, soprattutto la mattina: io su questo non transigo, la colazione è sacra e non esiste proprio quella colazione delle diete tristissima, tipo: una tazza di the con dolcificante, uno yogurt, due fette biscottate e una mela...ti fa venire voglia di rimetterti di corsa sotto le coperte e di dormire il resto della giornata.

Per me già alzarsi la mattina è un'impresa, soprattutto quando vado a lavorare: alle sei striscio fuori dal letto con gli occhi ancora chiusi, giusto la forza di darsi una lavata, prima di sprofondare davanti una tazza corroborante di caffellatte, con una bella fetta di dolce oppure, se proprio non ho di meglio, fette biscottate e marmellata fatta in casa, succo di frutta e allora si comincia a ragionare. Una bella colazione ti riconcilia col mondo, c'è poco da fare.

E allora, ecco perchè nonostante la dieta che impera a casa, i dolci non mancano mai, fatti in casa perchè quelli confezionati ormai non li compro più (avete notato come abbiano un sapore un po' finto, oltre a risultare pesanti da digerire? Evidentemente è lo stomaco che impara a riconoscere gli ingredienti genuini da quelli commerciali): a patto che il resto del giornata si eviti accuratamente di fare il topolino (un pezzetto di dolce, un biscotto, poi uno yogurt, poi un altro biscotto, è questo che mi rovina), allora concediamoci un momento dolce tutto per noi!


Questo è un dolce dal nome curioso, preso dall’Enciclopedia della Cucina di Repubblica che, se avessi seguito la ricetta originale e i tempi di cottura, avrei buttato nel secchio della spazzatura, come il primo Kugelhupf, mannaggia a loro…ma come le scrivono le ricette?!

Invece, variando qualcosa, è venuto benissimo, alto, consistente ma soffice, insomma, mi è piaciuto molto. Sembra quasi una specie di panettone, con uvetta e canditi. Infatti si deve cuocere in uno stampo alto, io ne ho comprato uno di alluminio di 22 centimetri di diametro, che ho usato anche per il panettone dell’Artusi.

La prima sostituzione che ho fatto è stato il burro con l’olio.
Poi, mentre mescolavo l’impasto, mi sono accorta che i 2,25 dl di latte riportati negli ingredienti, nella ricetta non risultavano: nel dubbio, ne ho messo la metà, alla fine la pastella era troppo liquida, secondo me, allora ho aggiunto 50 grammi di farina: dovendo crescere tanto, la pasta deve essere consistente, altrimenti si affloscia.
Ho provato a non mettere il latte, ma mi è piaciuta di più la versione col latte, è più leggero, nel secondo caso si sente un po' troppo l'olio e viene meno morbido.



Comunque, la cosa che mi ha lasciata più perplessa era la temperatura e il tempo di cottura: 30 minuti a 220 gradi. Per non sbagliare ho messo a 210, perché a 220 mi si brucia pure il pollo…mah. Dopo trentacinque minuti, il benzone era cresciuto sì, ma al centro era praticamente liquido.

Ho subito capito che qualcosa non andava: allora ho abbassato alla solita temperatura, 180 gradi, proseguendo titubante la cottura finchè lo stecchino non è uscito pulito:risultato, 1 ora e trenta secchi, altro che solo 30 minuti!
Non convinta, ho riprovato la stessa ricetta almeno altre tre volte, con alcune varianti e altri tempi di cottura, ed invece la prima riuscita è stata la migliore.
Pensavo fosse venuto un disastro, che si fosse seccato come il Kugelhupf: e invece no!!!

Per uno stampo alto e stretto da 22 centimetri:
450 grammi farina
4 uova
160 gr di olio di semi ( o mais)
1,25 ml latte
300 gr zucchero
1 bustina lievito vanigliato
100 grammi uvetta
50 grammi di canditi
scorza di limone oppure vanillina
2 cucchiai di liquore

Mettere a bagno l'uvetta, quindi strizzarla bene.

Sbattere le uova intere con lo zucchero, montandole bene con le fruste elettriche.Aggiungere a filo il latte e e l'olio, il liquore, la vanillina.

Cominciate ad aggiungere la farina mescolata al lievito poca alla volta.

In ultimo aggiungete l'uvetta e i canditi, mescolandoli delicatamente con un cucchiaio di legno.

Versare nello stampo imburrato ed infarinato, infornare nel forno caldo a 210 gradi, sul secondo ripiano dal basso, e proseguire la cottura per 30 minuti, quindi abbassare il forno a 180 gradi e cuocere ancora per 1 ora.
Sfornare e lasciar intipiedire, sformarlo e spolverarlo abbondantemente con zucchero a velo.

sabato 7 marzo 2009

Prove tecniche di primavera

Oggi qui a Roma sembrava quasi primavera.

Non fosse stato per quel venticello traditore che soffiava all’ombra, sarebbe stata una di quelle tiepide giornate piene di sole, in cui è piacevole passeggiare per le strade animate, sotto il cielo terso, gli alberi che cominciano a veder spuntare gemme e timidi fiorellini, una leggerezza insolita che ti scende nell’anima.

Vi capita mai di sentirvi, di questi tempi, insolitamente pieni di energie, con la testa piena di sogni, di progetti, di entusiasmi? Sembra quasi che la natura che si risveglia intorno trasmetta il cambiamento, il rinnovamento, nuova linfa che scorre dentro di noi.

La primavera è, per me, la stagione migliore, peccato che duri troppo poco, stiracchiata tra i venti freddi dell’inverno e il caldo soffocante dell’estate, ed invece adoro le giornate che si allungano, i lunghi pomeriggi di aprile e maggio, tiepidi e pieni di profumi, la voglia di uscire, di lasciare i colori smorti dell’inverno e riempirsi gli occhi e il cuore di colori.

In questo periodo, solitamente, cominciamo tutti a svestirci, e tutti i nodi cominciano a venire al pettine, perché la ciccia che accumuliamo nei mesi freddi (neanche dovessimo andare in letargo, o proteggerci contro gelide notti in mezzo alle neve) li copriamo tranquillamente sotto strati di maglioni, poi, quando ci togliamo gli strati di lana da dosso, ahi ahi…

Eppure, è proprio il corpo che ci richiede un’alimentazione diversa, piena di colori, purificatrice, quasi dovessimo espellere tossine e gli ultimi effetti nefasti dell’inverno.

Io mi sono impietosamente guardata allo specchio, e mi sono ricordata i miei buoni propositi di Capodanno, tra cui c’era quello di rientrare nei miei vestiti di tre anni fa (quando mi sono sposata ho perso chili come fosse acqua, forse era il panico da nozze) quando, in un impeto di auto gratificazione, mi ero riempita l’armadio di abiti taglia 42, che un anno dopo mi entravano col cavolo, forse gli effetti benefici del matrimonio si erano già volatilizzati…

E allora, visto che è tempo di rinnovamento e da un’alimentazione sana ne trae beneficio il corpo ma anche l’anima, vi propongo una bella insalata di farro, mais, radicchio e germogli di lenticchia: un concentrato di elementi preziosi per la nostra salute, sali minerali, proteine, carboidrati e vitamine.

La dieta non deve essere punitiva, sennò non funziona, se uno si deprime con un triste piatto di insalata e pesce lesso ha poche chance di non stancarsi in poche settimane, ed invece sarebbe importante riuscire a gratificarsi con qualche piatto colorato e gustoso, senza sentirsi in colpa (anche se guardarsi allo specchio e trovarsi meglio è in assoluto la gratificazione migliore).


Per fare i germogli, vi rimando al post che avevo pubblicato in questa pagina
Per il resto, potete unire quello che volete, come pachino, piselli, rucola, olive o quello che volete, come fosse riso o orzo.
Io ho seguito le istruzioni della confezione, che consigliava di farlo bollire in acqua calda salata, ma ho letto altre ricette in cui viene tenuto in ammollo e poi cotto come fosse un legume. Non so che dirvi, il mio è si è cotto benissimo così.




Per quattro persone (più o meno):Mezzo barattolo di mais
Qualche foglia di radicchio
Farro perlato, circa 200 grammi
Germogli freschi di lenticchia
Olio evo, sale, un goccio di aceto balsamico



Lavare accuratamente il farro.

Lessare il farro in acqua bollente salata, farlo cuocere circa 20-25 minuti(avevo letto che ci metteva un’ora, ma il mio era cotto molto prima), quindi scolarlo e farlo freddare.

Lavare accuratamente in germogli freschi, quindi buttarli tre o quattro minuti nella stessa acqua bollente salata, tirarli fuori e scolarli.
Mescolare il farro freddo, il mais scolato, i germogli, il radicchio lavato e tagliato a striscioline, condire con olio evo, sale, dell’aceto balsamico se volete un tocco più aromatico.

mercoledì 4 marzo 2009

Considerazioni filosofiche sull'economia domestica e prodezze feline


Anche casa vostra si sporca con la stessa velocità con cui si sporca la mia?

Oggi ho fatto la colf di me stessa, come dice la mia amica Pina: ogni tanto mi tocca, nel senso che, oltre alle cose normali, vengo presa da un impeto di entusiasmo domestico , da una furia iconoclasta per cui comincio a riempire sacchi di immondizia di ciarpame e roba inutile (una volta sono arrivata a cinque, ed il risultato è stato assolutamente nullo, nel senso che non si capiva da dove avevo preso tutta quella roba), sposto mobili e rovisto negli armadi, e dopo ore di fatica tutto sempre esattamente uguale a prima, giusto un pochino più pulito, ma neanche tanto.

C’è una ricetta magica per avere una casa pulita ed ordinata, senza dover fare ogni settimana le pulizie di pasqua?
Certe volte mi chiedo come sia possibile creare tanto casino in due persone e due gatti (non so chi sporchi di più se le persone o i gatti, è una bella lotta). In questo, comunque, i due coinquilini pelosi aiutano non poco: questa è Titti, ovviamente la scrivania è stata appena sgombrata e pulita: cosa c’è di più bello che allungarsi languidamente sotto la luce della lampada e farsi una dormitina, spargendo peli e impronte di zampe ovunque? Oppure salire sulla credenza della cucina e sorvegliare con occhio attento la preparazione della cena, non si sa mai ci scappasse qualcosa di buono?


Il top si raggiunge quando, ogni tanto, la qui presente decide di impersonare la perfetta massaia e di passare la cera sul marmo, in un impeto di masochismo ( ma il femminismo, non c’era stato trent’anni fa?). Già è una palla passare la cera, figuriamoci con due gatti dispettosi che non vogliono essere esclusi dalle pulizie di casa, anzi, cercano di offrire in ogni modo il loro contributo alla riuscita del lavoro.

Per le due birbe è un gioco da ragazzi aprire la porta a soffietto con cui vengono rinchiusi nel salotto (ogni porta chiusa è una vera sfida per qualunque gatto), e farsi una bella passeggiata circolare sulla cera ancora fresca, più e più volte, fino ad avere centinaia di impronte di zampette, possibilmente che si vedano in controluce, che sembra di avere 25 gatti in casa e tutti affetti da turbe psicologiche.
Oppure, sul pavimento appena lavato, vomitare con soddisfazione tutta l’erba gatta, peli e cibo masticato, per poi continuare su ogni cosa si trovi sul proprio cammino, tipo divani, poltrone, tappeti e scale.



Chi non ha un gatto (ma anche un cane) sicuramente prenderà per folle la coinquilina che sopporta tutto questo, ma poi guardate questo musetto angelico, che vi guarda amorosamente mentre cercate di usare la tastiera per scrivere qualcosa di intelligente, e ditemi voi come si fa a resistere…


lunedì 2 marzo 2009

E continuiamo così, facciamoci del male


Come diceva il grande Nanni, a proposito della Sacher Torte.

Sono reduce da un finesettimana lavorativo da incubo, carico di lavoro e di responsabilità, di quelli che passi dieci ore in un posto svolazzando come una farfalla impazzita per stare dietro a tutto, contando i minuti che ti separano dalla fine di domenica e contando le ore che ancora ti rimangono e che sono troppe per sopravvivere e troppo poche per finire tutto quello che c'è da fare.


E il giorno dopo sei talmente tanto stanca che riesci a malapena ad alzarti dal letto, e le ore ti si srotolano davanti, pigre e svogliate, mentre il corpo comincia a recuperare e la mente a snebbiarsi, a recuperare un briciolo di sanità mentale.
E vorresti recuperare il tempo perduto, magari uscire e farti una bella passeggiata, oppure metterti al computer e scrivere qualcosa di decente, ma anche dieci passi sono troppo pesanti e le parole non ti vengono, perchè sei troppo stanca perfino per pensare qualcosa di organizzato ed intellegibile.


Per fortuna poi passa.

E allora, visto che oggi sono ancora troppo stralunata per scrivere qualcosa di intelligente, ecco una torta cioccolatosa che ho fatto qualche giorno fa, ispirata da una torta Cioccolato e Pere che la mia amica Teodora si è sbafata sabato scorso, quando abbiamo preso il the con Simona alla Libreria Bibli, una riunione di ciacole tra libri e torte. Siccome avevo ancora lo stomaco in subbuglio per l'influenza, ho dovuto rinunciare alla torta di Tea e anche alla caprese di Simona, e quindi mi sono presa la rivincita e me la sono fatta da sola.
:-)

La ricetta era una mia sperimentazione di qualche anno fa ma senza pere: l'originale è buona, però le pere ammorbidiscono la pasta e la rendono quasi umida, profumata e cioccolatosa.



Se poi, invece di mettere le pere solo sopra (come ho fatto io) le mettete anche a pezzi nell'impasto, viene anche più morbida.

Per una teglia da 24 centimetri a cerniera:

4 uova intere
280 grammi di farina
200 grammi di zucchero
100 grammi di cacao amaro
mezzo bicchiere di latte
mezzo bicchiere di olio di semi
due cucchiai di liquore ( o di caffè)
una bustina di lievito
Tre pere grosse

Tagliare due pere a pezzetti e una a fette (all'incirca).

Battere con la frusta elettrica le uova intere con lo zucchero, montandole bene.
Aggiungere il latte, l'olio, il liquore.

Mescolare farina e lievito e aggiungerli poco alla volta all'impasto, poi cominciare ad aggiungere il cacao un cucchiaio alla volta.

Mescolare le pere a pezzi, poi foderare la teglia con carta forno, versa l'impasto e sistemarlo bene.

Decorare la superficie della torta con le fettine di pera, infornare a 180 gradi per circa un'ora. sul secondo ripiano dal basso.

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