I miei viandanti

venerdì 27 febbraio 2009

I germogli in cucina




Secondo voi cosa sono questi filamenti sconosciuti, forse delle forme di vita aliena, finite per sbaglio nel nostro piatto? Ovviamente no: le più accorte di voi avranno capito subito che si tratta di germogli, in questo caso di lenticchia.

Era un po’ di tempo che mi ero incuriosita, ho letto qua e là un po’ di notizie, e ho sperimentato la germinazione casalinga: i germogli infatti sono un’ottima fonte di  carboidrati, minerali e vitamine e, cosa importantissima, di proteine, soprattutto per chi le deve cercare  in altri alimenti che non siano carne e pesce, come i vegetariani.

I germogli si fanno tranquillamente in casa, sono estremamente economici, salutari e possono essere aggiunti ad insalate, minestre oppure mangiati semplicemente conditi. 

Certo, mi rendo conto che non sono paragonabili ad un piatto di lasagne, ma un tocco di natura nel piatto, ogni tanto, non ci fa male.
Ovviamente, i germogli non sono tutti uguali, possiamo distinguerli principalmente in:

germogli di legumi (lenticchie, piselli, fagioli, ceci, soia)

germogli di graminacee e cereali (grano, farro, avena, miglio, riso integrale, orzo, segale)

Germogli vari (crescione alfa alfa, ravanello, cavolo rosso, porro, zucca, girasole…)

La base di partenza sono i semi secchi, possibilmente biologici, e il metodo è piuttosto semplice, basta aspettare che sia la natura a risvegliarsi e a far germogliare il seme. 
Calcolate che un cucchiaio di lenticchie frutta 5 volte tanto, per cui regolatevi con le quantità.

1.       Mettere a bagno i semi per qualche ora, nel caso dei legumi almeno 12 ore.

2.      Sciacquarli, e metterli in un recipiente (anche un vaso largo), in uno strato di circa 1 cm (io ho usato un tupperware senza coperchio.

3.      I semi devono essere mantenuti umidi, ma non coperti di acqua, altrimenti marciscono
4.      Ogni giorno vanno bagnati e scolati un paio di volte

5.      Il vaso va tenuto al buio e in un posto caldo, la temperatura minima di germinazione è di circa 20, 21 gradi, quindi teneteli al riparo (io  li ho lasciati nel forno spento)

6.      Il vaso va chiuso con un pezzo di stoffa tenuto da un elastico, oppure avvoltolato (come ho fatto io) in un canovaccio pulito, in maniera che i semi siano al riparo ma ci sia ricambio di aria.

E poi non resta che aspettare…il tempo di germinazione varia da seme a seme, in questo caso ci sono voluti cinque o sei giorni. Ho covato i miei semini, ed ecco il risultato, una specie di foresta di filamenti. Una volta pronti, vanno tenuti qualche ora alla luce indiretta, in maniera che producano clorofilla (non al sole, altrimenti si seccano).

Poi vanno sciacquati molto bene, prima di utilizzarli.

Per quanto riguarda il loro uso, alcuni possono essere consumati crudi,  mentre altri devono essere prima cotti. Io ho provato ad assaggiare le mie lenticchie crude, ma devo ammettere che avevano un sapore a metà tra l’erba di prato e il pisello crudo, non proprio appetitoso. 

Allora li ho tuffati cinque minuti scarsi nell’acqua bollente salata, tirati fuori, scolati, e uniti ad un insalata di farro, oppure mangiati semplicementi conditi con olio, sale e aceto balsamico.

martedì 24 febbraio 2009

Malinconie di Primavera


Eccomi di ritorno, dopo qualche giorno di latitanza, e un po’ svogliatamente.

Non so se capita anche a voi, a me succede di immergermi totalmente in una cosa che sto facendo, per esempio scrivere, aggiornare il blog, fotografare all’impazzata accumulando ricette, racconti e reportages, e poi andare in overdose, cioè aver voglia solo di chiudere tutto e di non pensarci più, non aprire il pc, non rispondere alle mail che si accumulano, lasciare che la polvere dei giorni si depositi sulle mie pagine virtuali.

Forse è una reazione sana, un modo per non rimanere involtolati nel proprio bozzolo di pensieri, sogni ed elucubrazioni, rischiando di rimanere invischiati in una dimensione solipsistica, autarchica e fondamentalmente autistica.

In questi giorni ho lasciato decantare tutto quello che avevo scritto e pensato, rimanendo a galleggiare pigramente sulla scia del già detto, del già fatto…forse anche perché sono stata malaticcia, una pausa mentale e fisica che ti permette di raccogliere nuove energie. Credo che alcune volte il nostro corpo, quando si ammala, è perchè va in corto circuito, stacca i contatti e si prende una pausa di riflessione. Almeno, a me succede così.

In questi giorni, tra l’altro, mi sono successe una serie di catastrofi casalinghe che mezza bastava.
Prima ho allagato casa, dopo aver rimontato male il filtro della lavatrice che si era intasato: sono stata due ore a raccogliere acqua nel ripostiglio, ogni cosa che galleggiava in dieci centimetri di acqua: meno male che ero a casa, sennò trovavo i gatti con la tuta da palombaro e lo scafandro.
Poi è saltato mezzo impianto elettrico, abbiamo rischiato il corto circuito e forse qualcosa di peggio. Col risultato che ci è toccato di corsa rifarlo e scoprire che viviamo su un groviglio di fili che si allungano misteriosamente da tutte le parti, un intrico che dipanarlo è stato un’impresa, e ancora ci sarà da rimetterci le mani.

Insomma, se lo aggiungiamo al fatto che sono stressata da morire per il lavoro (oddioquantosonostressata!!), certe volte penso che un viaggetto a Lourdes potrebbe servire, come ultima spiaggia.

Eppure, rispetto ad altre persone che lavorano cinque giorni a settimana, dovrei considerarmi privilegiata, col mio part-time di 3, massimo 4 giorni a settimana, anche se con orari assurdi e per giunta sottopagata. Una turnazione che mi permette di fare anche altre cose, dedicare tempo alla casa, ai gatti, ai miei interessi, di leggere, scrivere, vedere le amiche e anche andare a zonzo.
Nonostante questo, sembra che non si riesca a staccare mai.

Forse perché non è facile chiudere la porta e lasciare fuori tutti i problemi e lo stress del lavoro, perché le cose da fare sono sempre tante (cumuli di panni da lavare, piatti che si accumulano nel lavello, il frigorifero che si svuota magicamente, neanche fosse preso d’assalto da un’orda di famelici barbari), e pare che non ci sia il tempo di fare tutto comodamente: uno arranca mettendo pezze a destra e a manca, faticosamente, e riuscire a ritagliarsi uno spazio personale sembra sempre togliere qualcosa al resto, un lusso che solo ogni tanto ci si può concedere.
E allora la lista delle cose in programma, i progetti di andare, vedere, scoprire, diventano sempre più aleatori, si procrastina al prossimo week end, poi al prossimo mese, li rimandi ad un futuro indeterminato, nebuloso, e alla fine te li perdi (quant’è che dico che voglio tornare alla Galleria Borghese? Mi sa almeno quattro anni. Eppure il tempo non si trova mai…)

Invece, riappropriarsi dei propri tempi, dei propri spazi, un pomeriggio per leggere un libro, andare a vedere un bel film, o semplicemente concedersi il lusso di una passeggiata spensierata sotto il caldo sole di primavera, in questa Roma meravigliosa che non cessa mai di incantarmi, dovrebbe essere una cosa su cui non si può transigere.

Come dice il vecchio pasticcere Di Veroli nel delizioso film La Finestra di Fronte: “Non si accontenti di sopravvivere. Lei deve pretendere di vivere in un mondo migliore, non limitarsi a sognarlo”. Questa frase potrebbe essere il mio manifesto personale, il mio progetto a lunga scadenza…anche se non è sempre facile scivolare leggera tra le preoccupazioni e le fatiche della quotidianità, non lasciarsi appassire in una routine sempre eguale, noiosa e ripetitiva.

Mah, sarà la primavera che mi rende così malinconica e fatalista…



Per consolarci di questa pigrizia svogliata e sonnacchiosa, vi propongo una fantastica minestra che ho rubato spudoratamente a Polinnia del Gatto Gobbo.

E’ una vecchia ricetta della nonna friulana, una minestra di zucca, latte e riso. Siccome adoro le vecchie ricette, adoro e minestre e adoro le nonne, mi pareva un connubio perfetto.
Vi riporto le dosi che ho usato io, per due persone. La ricetta originale è questa.

Per due persone:
400 scarsi grammi di zucca pulita
mezza cipolla
60 grammi di riso a testa
350 cl di latte ( le dosi del latte sono approssimative, tenete pronto qualche mestolo di latte caldo per allungare la minestra, nel caso si addensasse troppo)
parmigiano



Polinnia l'ha fatta nella pentola a pressione, io in una pentola di coccio.

Tagliare a dadi la zucca e a fettina la cipolla, metterele nella pentola, coprire con acqua e salare (ci ho aggiunto un pezzetto di dado).

Ho fatto cuocere circa 20-25 minuti, finchè la zucca non si è cotta, quindi ho aggiunto il latte, frullato col frullatore ad immersione ma solo un po', in maniera da farla rimanere grossolana e con dei pezzetti di zucca ancora interi, rimesso a bollire e salato.

Ho buttato il riso e ho cominciato a mescolare, per circa 15 minuti, fino alla cottura, allungando con del latte caldo quando cominciava stringersi troppo.

Mantecato con parmigiano e servito subito.

Bon Appetit!

giovedì 19 febbraio 2009

Una droga chiamata Facebook


Finalmente, dalle mie parti, è tornato il sole, quelle giornate di tramontana col il vento gelido che ti taglia la pelle, ma cieli luminosi e tersi, il mondo che sembra svegliarsi dal letargo, i primi timidi fiori che fanno capolino sui davanzali…non vi capita mai di sentirvi, in questo periodo, pieni di forze eppure sonnolenti, con la testa piena di pensieri, progetti, in pieno fermento, eppure ancora impigrita nell’inerzia dell’inverno…

Proprio in questi giorni di sole, ovviamente mi sono beccata di nuovo l’influenza, ho messo fuori brevemente il naso e sono scappata di nuovo al calduccio, per ora mi accontento di vedere il sole dalla finestra, in attesa di tempi migliori.

Ogni inverno, stagione che detesto tanto quanto l’estate piena, sopravvivo consolandomi che non durerà per sempre. Insomma, vivo a Roma, mica in Norvegia.

Dopo Natale mi consolo pensando che, quanto ci sarà rimasto di freddo freddo, dopo novembre e dicembre? Gennaio, forse la metà di febbraio? A metà febbraio mi consolo pensando che, quanto ci sarà rimasto, di gelo e maglioni, fino a metà marzo? A metà marzo, quando ancora il vento marzolino traditore continua a imperversare impietosamente, comincio a perdere la pazienza e a maledire questo mondo crudele, non ci stanno più le mezze stagioni, governo ladro!


Ma il mondo intorno a me è un’esplosione di colori, e allora la primavera sta davvero arrivando, troppo breve, solitamente, due settimane di magia pura, il profumo della natura che ti avvolge da ogni parte, inebriante e incantatore…Roma a primavera dà il meglio di sé, ma mai quanto Parigi, i cui parchi, giardini e aiuole disseminate ovunque traboccano di fiori di tutti i colori, se non siete mai stati a Parigi oppure non l’avete mai vista tra aprile e maggio, non potete perdervela! Quest’anno il mio viaggio in solitaria avrà una metà più vicina, purtroppo, magari il prossimo anno…

Va beh, siccome siamo a metà febbraio, diciamo che manca un mese, poi, forse…


In questo periodo di inerzia forzata, quest’anno con tutta la pioggia che ha fatto siamo stati tutti rintanati a casa il più possibile, ho sviluppato una dipendenza assoluta e preoccupante dal computer, ormai la mia scrivania è il posto dove faccio quasi tutto: scrivo, guardo film, ascolto musica, parlo con gli altri, lavoro alle fotografie, coccolo i gatti (che stanno perennemente sdraiati sulla tastiera oppure col capolino appoggiato languidamente sul mouse), insomma, sto sempre appiccicata qui.

La mia tastiera Wireless era talmente sporca e cosparsa di briciole, schizzi di caffè, peli di gatto e altre sostanze non più riconoscibili che s’erano incollati tutti i tasti: mi sono messa di buzzo buono e l’ho smontata, anche perché per scrivere ci dovevo martellare sopra, tipo Olivetti Meccanica anni 80, una fatica…

Quando l’ho scoperchiata ci ho praticamente trovato i topi morti, un brulichio di batteri e altre forme di vita aliene che ho prontamente eliminato, ma non è servito a molto. A parte che ho rimontato i tasti a memoria e alcuni li ho sbagliati, ho invertito la m e la n e la r e la t, ma è talmente faticoso smontare tutto che li ho lasciati così, con i risultati che vi potete immaginare.
Allora sono uscita e mi sono concessa una lussuosissima tastiera Apple, piccola, di alluminio e coi tasti di velluto, veramente una fuoriclasse, scriverci sopra è una vera lussuria, altro che wireless…



Dipendenza dicevo. Prima dal blog, ormai sono blog-dipendente, ogni cosa la immortalo con la macchina fotografica, non cucino quasi mai a caso ma sempre per pubblicare le ricette, ogni cosa che mi succede la trasformo in scrittura, insomma, sono diventata un incubo per tutti quelli che mi stanno intorno.

Siete anche voi al livello di guardia, quello in cui la prima cosa che fate, la mattina, ancora prima di prendere il caffè e fare colazione, è accendere il computer e scaricare la posta, controllate i commenti ai vostri post ( ma perché non commenta nessuno? Forse non interessa a nessuno quello che scrivo?)? Ho tanto preso in giro mio marito, che alle sei e mezzo di mattina era già attaccato al suo computer (ognuno ha il suo, anzi, lui ne ha addirittura 2), e invece tra un po’ lo batto pure…

E poi, ultimamente, sto diventando Facebook-drogata, non pensavo che potesse succedere proprio a me, ero piuttosto diffidente verso questo social network, e invece…


Mi sono scoperta una vocazione di impicciona che non avrei mai immaginato, vado a ficcanasare nelle bacheche altrui, guardo le foto, leggo i commenti, cerco le persone in rete, insomma, non starà diventando un’ossessione, una curiosità un po' insana? E ancora, i miei amici stanno crescendo in maniera esponenziale, ormai chiedono la mia amicizia persone mai sentite nominare, e non si qualificano neanche, e allora che faccio? Rifiuto l’amicizia? Li metto in stand-by? Mi arrivano notizie di cui non mi potrebbe fregare di meno…ma come si fa a depennare qualcuno dalla lista degli amici? Mi pare una sgarberia, io lo farei nella vita? Beh, forse sì.

La mia bacheca è un porto di mare, c’è un passaggio continuo di gente che scrive, commenta, pubblica foto, mi invia messaggi…stare dietro a tutti è quasi un lavoro a tempo pieno.

E allora mi viene da riflettere sul fatto che tutte queste persone hanno un sacco di cose da dire e da far vedere, che probabilmente invece di farlo nella realtà, lo fanno su Facebook, un’ illusione di contatto reale su un luogo virtuale…


Alcune volte penso che questi contatti virtuali non siano del tutto sani, perché è molto più facile stare davanti ad uno schermo e interloquire con delle figure evanescenti piuttosto che uscire di casa e incontrarle di persona, oppure alzare il telefono e dirsi due parole via cavo, e non via chat. Tra l’altro, nella realtà virtuale si può dare l’immagine che si vuole di sé, probabilmente non la più veritiera…quanto bariamo, mostrandoci nella nostra vetrina personale?

Io, per esempio, a scrivere me la cavo piuttosto bene, già al telefono comincio ad essere un disastro, figurati che posso combinare nei rapporti face-to-face…già solo l’immagine che mettiamo sul nostro profilo, che mostra la nostra faccia qualsiasi cosa facciamo sul network, è una scelta, è il nostro alter ego fantasma, forse solo la proiezione di quello che vorremmo che gli altri vedessero. Insomma, un avatar.

La nostra finestra virtuale sul mondo ci fa illudere di essere meno soli, ma non so quanto poi sia vero…anzi, forse avere a portata di mouse chiunque ci fa impigrire ancora di più, ci rende ancora più dipendenti da un programma di posta o da una chat.

E allora sarebbe meglio chiudere tutto e uscire a fare una bella passeggiata, sempre che non ricominci a piovere…


Per consolarci con qualcosa di meno virtuale, ecco una bella torta a base di formaggio, mandorle, canditi e uvetta. L'aspetto è promettente e il sapore ancora di più, vi assicuro che è una delizia, morbidissima, perfetta per un the caldo e aromatico.

Torta formaggiosa con mandorle, uvetta e canditi

300 grammi di farina
3 uova grosse
250 grammi zucchero
250 ricotta
100 grammi Philadelphia
100 grammi mandorle non spellate
75 grammi uvetta
100 grammi canditi
1 bustina lievito vanigliato
3 cucchiai vinsanto o altro liquore
Zucchero a velo


Tortiera 26 centimetri.
Mettere a bagno l'uvetta per almeno mezz'ora, in acqua tiepida.

Battere i tuorli con lo zucchero, con la frusta elettrica, aggiungere il formaggio e la ricotta ben scolata.

Unire il liquore, poi la farina mescolata al lievito.

In ultimo unire delicatamente prima le chiare montate a neve, senza smontarle, poi unire canditi e l'uvetta ben strizzata.
Versare nella tortiera imburrata ed infarinata, cospargere con le mandorle.

Infornare per 40-45 minuti a 180 gradi, sul secondo ripiano dal basso.

Una volta fredda, sformarla delicatamente e spolverarla abbondantemente di zucchero a velo.

mercoledì 18 febbraio 2009

Ritratti in bianco e nero


C'è stato un periodo della mia vita in cui ero fissata con la fotografia, anche più di adesso: dopo aver fatto un corso professionale, sono riuscita farmi regalare, per la laurea, la camera oscura per stampare in bianco e nero e l'intera attrezzatura Nikon, niente male davvero come regalo (beh, comunque me lo meritavo).

Il corso di fotografia è stata una delle cose più divertenti della mia vita, nonostante sia stato lungo e impegnativo, ho imparato tantissime cose, e i miei colleghi erano veramente simpatici (parecchi sono immortalati in questi scatti).
In più, facendoci le foto a vicenda, si aveva la soddisfazione di avere anche bei servizi fotografici di sè stessi e poterseli stampare da soli: c'è stato un periodo che la mia camera sembrava uno studio fotografico. Avevo tappezzato le pareti di gigantografie mie in tutte le pose. Purtroppo sono stata tacciata di esibizionismo e megalomania, ed alle pareti della casa nuova ne resiste solo una, il resto è finito in cantina, assieme alla camera oscura, sigh!


Tutta l'attrezzatura era montata in camera mia, sempre pronta per l'uso, non so quanti pomeriggi ho passato al buio, sotto la luce rossa della lampada di sicurezza, ad armeggiare con carta, provini, negativi; in bagno, per diversi anni ci sono state file di fotografie appese con le mollette, bacinelle che viaggiavano avanti ed indietro, l'odore pungente dei liquidi che aleggiava perennemente in casa...chi non ha mai provato, non conosce l'emozione di veder apparire lentamente, nell'oscurità, la fotografia nella bacinella dello sviluppo, ogni immagine studiata e ritoccata fino a diventare perfetta, unica.


Quando si fa fotografia a questo livello, di solito si comprano le pellicole non a rullino, ma a metraggio: bobine da 100 metri di pellicola, che vengono montate a mano dentro speciali rullini riutilizzabili, così come le risme di carta di 25 o 100 fogli, di tutte le misure, dal formato 13 per 18 centimetri (più piccoli non vengono neanche presi in considerazione) a quello enorme 50 per 70 cm, una vera sfida stampare immagini di quelle dimensioni, ma che soddisfazione...

E poi, tutti i tipi di carta per stampare, che nel negozio ci si perdeva incantati tra i pacchi colorati, con sigle e nomi indecifrabili per i profani: cartoncino lucido, opaco, a tono freddo o caldo, carta politenata lucida, perlata, matt o semimatt, a contrasto fisso, a contrasto variabile...ci ho lasciato praticamente un patrimonio, in quei negozi.


Quando sono passata al digitale, l'anno scorso, ho imparato che molte delle tecniche di camera oscura si possono riprodurre con Photoshop, con risultati ancora più spettacolari, ma l'emozione, quella non c'è... non dico che fotografare col digitale non sia bello, anzi, la mia Nikon D80 è una meraviglia della tecnica (prima o poi ne imparerò tutte le funzioni, c'è un libretto di istruzioni che sembra un elenco telefonico), però è una cosa proprio diversa, ecco...

Di tutta quella frenetica attività di quegli anni, ancora ci sono centinaia di stampe e cataloghi di provini, metri e metri di pellicola mai stampata: le migliori immagini sono incollate su enormi album, molte altre sparse, ancora in attesa di essere sistemate per tipologia o per argomento.

Viaggi (la Russia, Norvegia, Svezia, Belgio,Olanda, Germania, Danimarca, Cecoslovacchia), Still-life, Reportage, Paesaggi, Fiori, ma soprattutto ritratti.


Per tutto quel periodo ho avuto anche le lampade professionali da ritratto (veramente le ho tuttora, anche loro a riposo), e le persone che sono passate da me per un servizio fotografico sono state parecchie...mi sono sempre piaciuti i ritratti, riuscire a cogliere un sorriso, un'espressione, a scoprire la bellezza in qualsiasi volto, lo sguardo, l'anima che si intravede negli occhi...qualche volta mi è riuscito meglio, qualche volta no.


Le possibilità tecniche sono infinite: si può giocare con il taglio, l'inquadratura, si può puntare sulle alte luci o scavare nelle ombre, scegliere uno sfondo chiaro oppure uno scuro, alzare il contrasto oppure scegliere toni più soffusi, esaltare la grana della pellicola oppure preferire i dettagli più fini...insomma, fare un bel ritratto è molto meno facile di quanto sembri a prima vista...

I volti ritratti in questi 15 anni, che mi fissano da quelle pagine, sono ormai tanti, e mi faceva piacere condividerli con voi...

lunedì 16 febbraio 2009

Vanità, tutto è vanità, solo vanità


Ebbene sì, alla fine ho capitolato anch’io. Sono anni che resisto alla moda imperante delle unghie rifatte, quelle lunghe, squadrate, lucide di gel, ho sempre detto: Chi, io?! Giammai!
Ed invece, magari in ritardo di qualche anno, guardando lo stato pietoso delle mie mani, le unghie ridotte ai minimi termini, mi sono decisa: ci vado. Ho preso il coraggio a quattro mani, e sono andata.

In uno di quei centri estetici, quelli pieni di specchi, di lettini, di attrezzi misteriosi, pieni di estetiste giovani, carine e magre, curatissime (nulla fuori posto, mani-sopracciglia-pelle perfetta-capelli freschi di taglio, ma le estetiste sono tutte così? Qualche brufolino, qualche scolatura del trucco?) e che ti fanno sentire bruttina, trascurata e sciatta, e che ti dicono, in tono incredulo: ma come, lei non fa la pulizia del viso ogni tre mesi?! E la manicure tutti i mesi?
E quando confessi che, sì, ti lavi il viso con acqua e sapone, e l’unica cura è una comunissima crema idratante mattina e sera, quasi si scandalizzano, ma signora così si rovina la pelle, a quest’ora dovrebbe cascarle a pezzi, e poi qualche lampada prima dell’estate, lei con la pelle così bianca ( va beh, è vero che sembri un po’ la sorella anemica di Dracula, ma vaglielo a spiegare che non prendi il sole da un’eternità, che ti sei presa l’eritema e ti riempi di bolle dalla testa ai piedi appena metti fuori il naso dall’ombrellone, e che sono anni che resti, orgogliosamente, bianca come una mozzarella: ti consoli pensando che vedranno loro, alla tua età, piene di rughe, mentre tu, insomma, ancora te la cavi alla grande, e senza botulino).

Insomma, uno di quei posti che evito accuratamente da sempre: gli unici, rari, trattamenti estetici a cui mi sottopongo sono in uno di questi posti tranquilli, con musica orientale in sottofondo, una tisana per rilassarsi, un bel massaggio fatto da una signora gentile, da cui esci completamente rinata, convinta che la bellezza e la serenità interiore si riflettano anche sull’esteriorità (è una mia opinione personale assolutamente non suffragata da fatti concreti, probabilmente una mera illusione).

Così come evito da sempre i negozi di vestiti all’ultima moda, non sapendo neanche cosa significa questa parola: non la seguivo a 15 anni, figurati adesso che posso permettermi di crearmene una tutta mia personale (uno dei vantaggi dell'età), alla faccia di quelli che dicono: quest’anno vanno i pantaloni così e cosà, le scarpe col tacco in questo modo, quest’anno quel colore è totalmente out…e un bel chissene frega?

Certo, la moda imperante complica un po’ la vita, se non vuoi finire omologata a tutte le altre: se vanno i pantaloni a vita bassa, devi girare un bel po’ di negozi per trovare uno straccio di pantalone da cui non fuoriesca un bel pezzo di mutanda, così come se cerchi delle scarpe normali, carine ma comode, non troppo estrose, ti senti rispondere dalla negoziante: ma lei si deve adeguare alla moda, quel tipo di scarpe che cerca quest’anno non va proprio! E no, cara signora, è la moda che si deve adeguare a me, credo la prospettiva sia piuttosto sbagliata.

Quando poi passeggio per la strada, soprattutto per le grandi strade commerciali, e mi guardo intorno, osservando il tipo di fauna femminile che gira, non so se piangere o ridere, davvero, soprattutto in quartieri più popolari (abbiamo fatto un raffronto tra Boccea e Viale Marconi, quest’ultimo è risultato quasi imbattibile, a meno che non si finisca proprio in periferia).

Si vedono sciami di donne, ragazze e ragazzine, ormai le età media si è talmente abbassata che pure le 12enni sembrano delle cubiste, stile simil Jennifer Lopez-Victoria Beckam oppure modello troniste di canale 5, tutte uguali, tutte con gli stessi capelli stirati e con lo stesso identico taglio, gli occhiali Ray-Ban o simili, pancia di fuori e perizoma in vista, incuranti dei rotoli di ciccia che escono dagli elastici (ma qualcuno gliel’ha detto che quel filo interdentale tra le natiche è assolutamente antigienico?), magliettine corte pure in pieno inverno (vedrete, tra qualche anno, che reumatismi), scarpe che sono dei veri e propri strumenti di tortura, e quello che ti inquieta di più è che sono davvero tutte uguali, tutte identiche, come fatte con lo stesso stampo, indipendentemente dall’età.

E passi per la ragazzina di sedici anni, chi non è stata un po’ estrosa a quell’età, ma quelle signore 40-50enni, non più giovanissime, magari madri di famiglia, che si conciano come ventenni, ancheggiano su tacchi assurdi, i visi congelati dal botulino, le labbra gonfie e il trucco pesante, mi fanno ridere, e mi fanno anche un po’ pena, perché più invecchiano e più diventano patetiche, nel loro non volersi rassegnare al tempo che passa.

Un conto è la cura di sé, un dovere sacrosanto, che significa stare bene nella propria pelle e mantenersi in forma, chè vedere una donna trascurata e sciatta è veramente triste… un altro conto è il culto dell’apparenza e della giovinezza a tutti i costi, che ti costringe ad uniformarti ad un modello imperante di bellezza che ci vuole tutte con lo stesso corpo, con i capelli in un certo modo, con gli stessi vestiti e le stesse scarpe, e alla fine si finisce per essere delle fotocopie, anche i visi sembrano simili, infinite replicanti dello stesso archetipo femminile.

Io in questo ho sempre giocato fuori zona, visto che la frase che mi sono sentita ripetere più spesso è che “hai un tipo di fisionomia un po’ antica”, qualcuno una volta mi ha detto che “sembravo uscita da un quadro del ‘ 600” (ancora mi chiedo se fosse un complimento, ma mi sa di no), ed è quindi ovvio essere fuori moda, già in partenza.
A 15 anni la consideri una tragedia, a venti pure, a trenta ti rassegni, a quaranta invece ne sei proprio felice, di essere un po’ diversa, anche deliziosamente antiquata, alla faccia di queste replicanti senz’anima, belle fuori e vuote dentro.

Insomma, alla fine ci sono andata, e siccome è stato un piccolo avvenimento, almeno un accenno ve lo voglio raccontare. L’estetista, ovviamente, una moretta carina, magra e curatissima, e ti pareva, con delle sopracciglia senza un pelo fuori posto (ma perché le mie ricrescono come se le concimassi?). E’ anche vero che se fosse brutta e sciatta, si farebbe cattiva pubblicità…

Comunque, il trattamento in sé è una specie di tortura: le unghie, o quel poco che ne resta, vengono prima maltrattate con le lime, poi vengono incollate le tips ( si chiamano così, quei pezzetti di plastica che te le allungano) con quell’adesivo cianocrilato in tubettini, quello che se ti si appiccica un dito mentre stai incollando un oggetto, per staccarlo viene via la pelle viva, che rimane incollata all’oggetto e non più al tuo dito.

Ma, ti dici, sarà una cosa passeggera, mentre comincia a ridurti gli artigli ad una cosa di dimensioni accettabili, ed invece permane la spiacevolissima sensazione che le tue povere estremità siano state prese a martellate, dolenti e attaccaticcie, ogni attività prensile completamente inibita.
Dopo questo incollamento, vengono di nuovo maltrattate con la lima, e quindi annegate in una mare di gel colloso e poi cotte sotto una luce blu e calda, e immagini le tue povere unghie che faranno manifestazioni di protesta e scioperi della fame, pur di essere liberate da quella specie di blob sintetico vetrificato, per tornare corte e brutte, ma di nuovo libere.

Sono uscita da lì con le mie unghie nuove, tutte belle lunghe e lucide, orgogliosamente squadrate, dure come roccia, la sensibilità dei polpastrelli completamente fuori uso, le mani completamente impedite anche nei gesti più normali come aprire una lampo o raccogliere le monete nel portafoglio.

Risultato: appena arrivata a casa, sono stata un’ora a limarmele, cercando di staccare i polpastrelli incollati e a riportare le mie estremità ad una dimensione umana, adatte a qualcuno che usa le mani per fare cose normali, tipo scrivere al computer, aprire il barattolo del caffè, tagliare le cipolle o lavare i piatti: cosa che, sono sicura, tutte queste belle ragazze dalle unghie lunghissime non fanno. Beate loro.

venerdì 13 febbraio 2009

Tonnarelli zucchine e feta


In questi giorni che sono stata a casa, come al solito mi ero ripromessa di fare un sacco di cose, alla fine ho combinato poco o nulla. Anche perchè, essendo metereopatica, il tempo sempre grigio, il freddo e la pioggia mi hanno un po' ammosciato. Mai visto un inverno così plumbeo, una cappa di nuvole nere che gravita sulla città da mesi.

Avete fatto caso come sembra diverso, il mondo che si ha attorno, in una giornata di sole? e quanto sia triste, invece, in una giornata di pioggia?



Sarà che i paesi nordici sono abituati, mentre noi no...ora capisco perchè nel nord Europa dipingono ogni cosa di colori accesi, le case sono colorate, finestre, ringhiere, persiane, insegne...nel sud ci dovrebbe essere il giallo del sole e l'azzurro del cielo, a rallegrarci gli animi, ed invece...

Comunque, qualcosa almeno ho cucinato, non molto, ma un paio di dolcetti e qualche pasta sfiziosa me li sono concessi.


Questi tonnarelli sono conditi con zucchine e feta, un accostamento di sapori, e anche di colori, che mi incuriosiva e che ho sperimentato con successo, il connubio mi piace, e poi il tonnarello è una pasta corposa, che prende bene un condimento con verdure e formaggio.

Per due persone:

400 grammi di zucchine pulite (visti i prezzi al momento, ho usato una busta da 450 grammi di zucchine surgelate, già tagliate a rondelle)

cipolla, carota

olio evo

feta

parmigiano

100 grammi di tonnarelli freschi a persona

Per il condimento:

Mettere in una padella antiaderente tipo salta pasta (deve contenere poi la pasta) un fondo di olio, con cipolla a fettine sottile e carota a pezzetti piccoli (anche verdure per soffritto congelate).

Far imbiondire per un paio di minuti, poi aggiungere le zucchine, mescolare bene (senza salare).

Far insaporire qualche minuto, poi aggiungere mezzo bicchiere d'acqua e coprire.

Far cuocere per almeno una ventina di minuti, mescolando spesso e aggiungendo qualche cucchiaio di acqua se necessario, quindi salare e pepare, e far cuocere le zucchine fino a fare dorare.

Spegnere e mantenere al caldo.

Fare a pezzetti la feta.

Per la pasta:

Cuocere la pasta come nelle istruzioni ( di solito 5 o 6 minuti), scolarla e buttarla nel condimento ancora caldo, eventualmente con qualche cucchiaio di acqua di cottura. Mantecare a fuoco vivace la pasta con le zucchine, la feta e il parmigiano ed un filo di olio a crudo (io preferisco mettere meno olio prima e un goccio a crudo).

Servire subito.


Buon week end a tutti, io purtroppo lavorerò, la pacchia è finita...

mercoledì 11 febbraio 2009

Se siamo ancora un paese civile

E’ difficile passare da argomenti tristi e poetici, ma lontani nel tempo, come la storia di Matilde , ad argomenti quotidiani, non meno tristi ma purtroppo di questi giorni.

Ho evitato di commentare, ultimamente, gli avvenimenti tragici che hanno occupato tutte le prime pagine dei giornali non per disinteresse o ignavia, al contrario, perché ero talmente indignata e schifata da non avere parole, o almeno, non parole decenti, che potessi scrivere senza essere denunciata per oscenità o calunnia.

Questa vicenda ci ha, bene o male, coinvolto tutti, purtroppo non nei termini con cui si dovrebbe discutere in un paese cosiddetto civile, mi sembra che di civile ci sia rimasto ben poco, in questa società, e lo dico con profondo rammarico.

Affronto questo delicato argomento, conscia del fatto che questo blog, che tratta di varie cose del quotidiano per lo più leggere, non sia la sede più adatta, ma è l’unica di cui dispongo; sono sicura che non tutti i miei affezionati lettori saranno d’accordo con me, e me ne dispiaccio in partenza, ma certe volte ci si deve esporre, a costo di alienarsi le simpatie altrui.

Parto raccontando un piccolo aneddoto, avvenuto sulla porta di casa mia qualche tempo fa, un piccolo incontro che mi ha ridere e arrabbiare nello stesso tempo.

Il mio è un quartiere tranquillo (esclusa via Boccea, ovviamente), piccole vie con poco traffico, casette e condomini di modeste dimensioni, giardinetti, il mercato, la Chiesa in mattoni che campeggia in fondo alla via: una dimensione umana, in cui ci si conosce tutti per lo meno di vista. Unica intromissione in questa quiete, le prepotenti scampanate della Chiesa San Filippo Neri, il cui parroco noi abbiamo denominato San Martino Campanaro, per l’entusiasmo e la foga che ci mette nel segnare i momenti salienti della giornata e altri che conosce solo lui.

Campane che vengono sparate a palla, con volume assordante e fragoroso, su delle musichette orribili: lo scampanìo copre il volume di qualsiasi altra cosa, voci, televisioni, stereo, se si sta al telefono è meglio tacere quei tre o quattro minuti, tanto non si sente assolutamente nulla. E questo, passi nei giorni normali, anche se scampanare a tutto volume alle sette di mattina mi pare già una bella prepotenza. Ma nei giorni particolari, in cui gli scampanii si ripetono a tutte le ore, è meglio uscire di casa e andare da qualche altra parte, inutile anche girare con Ipod, tanto riesce a sovrastare anche un gruppo di Heavy metal sparato nelle orecchie.

E già questo mi pare indicativo del rispetto che la parrocchia porta nei confronti delle orecchie delle case che le sono accanto.

Un giorno bussarono alla mia porta, solitamente qualche volta apro, altre no, stufa dei vari venditori di Folletti-Infostrada etc…: stavolta aprii, ignara.

Mi si pararono davanti due signore, non giovanissime e d’aspetto gentile, a colpo d’occhio con quell’aspetto cortese e dimesso tipico delle signore che frequentano questi posti tipo parrocchia, associazioni benefiche o posti simili: abbigliamento pratico e non frivolo, scarpe basse, capelli corti, niente trucco, ed infatti non mi sbagliavo, erano parrocchiane di san Filippo Neri, proprio la chiesa dal parroco campanaro.
Le due signore erano le promotrici nonché animatrici di una serie di riunioni di preghiera, con recitazione di una novena di rosari, di cui mi fornirono anche il foglietto con gli appuntamenti e gli orari.
A questa gentile proposta, risposi con un altrettanto gentile: grazie, non mi interessa.

Una delle due signore, esterrefatta del mio diniego, mi chiese il motivo, di questo mio incredibile disinteresse, e mi sussurrò, sottovoce, quasi facesse una domanda pericolosa:
Lei è forse di un’altra religione?” e ultimamente gliene devono capitare molte, di persone di altra religione. Ed io, liscia liscia, ribattei che no, non sono di nessun’altra religione, non sono proprio credente.

Espressione incredula, quasi attonita, e chiese di nuovo, come se non credesse a quello che aveva sentito: come, lei non è credente? Non è di nessuna religione? Al che ribadii, in maniera più decisa che no, non adoro nessuna divinità religiosa, sono completamente atea.

Credo di avere assolutamente scandalizzato la signora, la quale cominciò un dialogo surreale, in cui tentava di capire le motivazioni del mio insano rifiuto, scivolando su temi e argomenti che io ritengo personali, ingiudicabili, oltre delicati. Cercò di convincermi ad un colloquio col parroco (fui quasi tentata di accettare, almeno gli potevo dire quello che penso delle sue campane), sicura che tale colloquio col saggio sacerdote ricondurrebbe la pecorella smarrita sulla retta via, nel gregge del signore, mancava poco che invocasse l’esorcismo, per scacciare via da me i demoni che sicuramente mi possiedono.

E quello che mi pareva più ridicolo, è che la signora non insisteva con cattiveria, ma assolutamente certa che la sua verità assoluta fosse anche la mia, che non ci fosse alternativa, che l’unico modo di vivere correttamente al mondo fosse quello in cui credeva lei. La frase che ha raggiunto il colmo, è stata quella, pronunciata in maniera accorata: ma come, lei che ha un visetto così gentile, così perbene?!

Al che ho rassicurato la parrocchiana sul fatto che non vado in giro a scippare vecchiette, a molestare bambini o a seviziare gatti. Nel mio piccolo, anzi, mi reputo una cittadina modello, una che non beve un goccio di alcol, non va in giro a fornicare col primo venuto, che fa la raccolta differenziata, è vegetariana da anni, oblitera sempre il biglietto sull’autobus e non dice bugie, il che di questi tempi non mi pare poco.

E’ evidente che per lei non avere religione e non avere leggi morali è la stessa cosa, anche facendole notare che valori etici, civici e morali sono comuni anche in persone di altra o nessuna religione, esistono regole universali che si chiamano solidarietà, rispetto, correttezza, onestà che tutti possediamo dentro di noi, e una società laica e civile è fondata proprio su questi comuni valori.

Parole al vento, per la signora chi non ha religione , anzi, chi non appartiene alla religione cattolica, è perduto, dannato, senza regole morali, condannato senza speranza.
Mi chiese come fossi potuta arrivare a questo, come fosse possibile che una ragazza d’aspetto così gentile potesse essere caduta in questo baratro, in questo abisso di perdizione. Forse che non conoscevo abbastanza la religione cattolica? Forse nessuno mi aveva illuminato al riguardo?

Signora mia, ho fatto 11 anni a scuola dalle suore, cantavo nel coro di una piccola chiesa di Trastevere, per anni, ed ho anche fatto parte della Comunità di sant’Egidio, direi che la mia bella esperienza in materia io l’abbia fatta, eccome. Se non bastasse, ho studiato anche Storia delle Religioni, tra le mie materie all’Università: probabilmente sono in possesso di una conoscenza teorica e storica ben più ferrata della sua. E allora perché, per quale motivo mi rifiutavo di riconoscere la vera luce, di accogliere in me la sua grazia?

A quel punto ho perso un po’ la pazienza, rispondendole in maniera ferma e un po’ piccata che il percorso di consapevolezza che mi aveva portato a delle scelte così dolorose e definitive, erano affari miei e punto, e non permetto a nessuno di giudicare queste scelte e queste convinzioni, come io non mi permetto di giudicare le sue, né di convertirla al mio ateismo. Inutile. Come parlare ad un muro, la possibilità di dialogo assolutamente nulla.

La signora è andata via solo dopo una vaghissima promessa di andare in parrocchia per parlare col famoso campanaro, la mia pazienza era al limite e, per non passare alla scortesia, ho preferito mentire, qualche volta capita anche me.

Mi assicurato che avrebbe pregato per il mio caso disperato, e avrebbe invocato che la grazia del signore scendesse su di me, per illuminarmi il cammino. Non dubito che ci si sia impegnata molto, nelle sue preghiere ma, evidentemente, non hanno sortito granchè d’effetto, almeno mi pare.

Questo per dire che ho vissuto tutta la vicenda della povera Eluana Englaro sotto una prospettiva laica, e questo già dice in partenza il fronte su cui ho militato: e mai parola m’è sembrata più calzante, visto che i toni sguaiati e arroganti usati per commentare questa triste storia, hanno fatto sì che le due fazioni si siano scontrate sulle barricate, come in guerra, senza rispetto per il dolore di due genitori che soffrono da 17 anni.

Mai come in questi anni mi sono vergognata di vivere in questo paese, che dovrebbe essere un paese democratico, laico, un paese di diritto, in cui quotidianamente le nostre leggi e la nostra costituzione viene fatta a brandelli da un manipolo di cialtroni.

Con tutta la stima del signor Englaro, che ammiro e rispetto per il suo coraggio, non mi pare che questo stato tuteli la libertà di scelta e di pensiero : io, al posto suo, poco coraggiosamente, me la sarei portata ben lontano da qui, da questo luogo dove i politici senza anima hanno speculato sulla pelle di una povera giovane per ottenere consensi elettorali e conservare la benevolenza delle gerarchie di uno stato estero, una cosa inammissibile, intollerabile. Il tono e la sostanza delle frasi che ho sentito pronunciare in questi giorni mi ha fatto veramente vomitare.

Un autorevole giornale di parte ha accusato il padre della ragazza di omicidio: ed è assolutamente curioso che un sacerdote che si permette di negare la Shoah viene riaccolto nel gregge, che un boss della malavita romana rimane seppellito in una chiesa, ed un padre che chiede solo che la figlia sia liberata da una vita di sofferenze venga chiamato assassino.

Per non parlare di tutta l’ondata bigotta e reazionaria dei nostri politicanti, che hanno cavalcato l’onda con cinismo aberrante, solo per interessi materiali e di convenienza: penso a livelli così bassi il nostro paese non era mai arrivato. E non solo a destra, quando ho sentito le parole della Binetti mi si è ghiacciato il sangue nelle vene…

Non so voi lettori che cosa ne pensiate, di tutta questa triste storia.

So solo che uno stato che non garantisce la libertà di scegliere, non è uno stato di diritto.
Un laico non impone ad un cattolico una scelta, che si tratti di aborto, divorzio, eutanasia o fecondazione assistita, né di vita e di morte: nessuno obbliga un cattolico a divorziare o ad abortire.
Uno stato democratico fondato su una costituzione laica dà la possibilità di scegliere, di rispondere solo alle sue leggi e alla coscienza individuale.

Altrimenti non è uno stato laico, ma un paese asservito al fondamentalismo religioso, esattamente come gli stati assolutistici islamici che critichiamo tanto.

domenica 8 febbraio 2009

Storia di una signora di campagna dei primi del Novecento

Questa è la storia di una signora di campagna dei primi del Novecento, una storia vera: la maggior parte di questo racconto è stato ricostruito su fonti certe e racconti che si sono tramandati di madre in figlia, anche se ormai è rimasta un’unica testimone di quel periodo, e su un carteggio di centinaia di vecchie cartoline, amorosamente riposto in un album, che copre un periodo che va dal 1905 al 1909 circa.


Se vi è qualche imprecisione e qualche vaghezza nella narrazione, la responsabilità è nell’incertezza dei racconti, delle defaillances della memoria e, in ultimo, di una certa aura romantica di cui, sono convinta, avvolgo i fatti che qui narrerò.
La protagonista porta il nome dal fascino desueto e un po’ antiquato di Matilde e, come tutte le vecchie storie che si rispettino, ha radici ancora più lontane, più indietro nel tempo e, per questo, avvolte nella nebbia dei ricordi.
Ma iniziamo dal principio, fin dove i ricordi di famiglia possono arrivare, senza cadere nella vaghezza delle leggende.





Matilde nasce a Velletri il 9 luglio del 1879, da una famiglia benestante, piccola nobiltà di provincia, con una storia di passate ricchezze testimoniata da un palazzotto nobiliare, che era stato di proprietà fino a qualche tempo prima, sempre nello stesse ridente paese, arroccato tra i Castelli Romani.

Suo padre, Vito Montelli, l’aveva avuta in tarda età. Doveva essere nato attorno gli anni 20-30 dell'Ottocento, perchè nel 1849 era già adulto.

Vito era stato capitano dell’esercito, prima di ritirarsi a vita civile, e l’impresa più gloriosa della sua vita fu l’aver partecipato, nel 1849, alla difesa di Roma durante la seconda guerra risorgimentale. Questa partecipazione è testimoniata da un attestato, ingiallito e sfilacciato, rivenuto casualmente tra i cimeli di famiglia, datato 20 dicembre 1871: vi si legge che


"La Commissione istituita dalla giunta Provvisoria di Governo in virtù del decreto del 28 Settembre 1870, dichiara che il Signor Montelli Vito, già capitano, per aver preso parte alla Liberazione di questa città nel 1849 ha diritto a fregiarsi della medaglia dei Benemeriti della Liberazione di Roma."



Nel 1848, come tutti ricorderanno, Roma si ribellò al Papa Pio IX, seguendo la scia di rivoluzione che percorreva tutto il paese, instaurando la Repubblica Romana e facendo precipitosamente fuggire il papa a Gaeta.

Il papa chiamò Napoleone III e le truppe francesi in soccorso, agli ordini del generale Oudinot: la città fu presa d’assedio e, dopo una cruenta battaglia sul Gianicolo di cui ancora si vedono i segni, Roma fu invasa dalle truppe straniere e riconsegnata brutalmente al papa. Fu in questa occasione che combatterono giovani valorosi come Goffredo Mameli, autore del nostro Inno Nazionale morto ad appena 22 anni, Luciano Manara, Enrico Dandolo.


Non sappiamo se Vito combattesse per i rivoluzionari garibaldini oppure per le truppe papaline ma, da quello che si può leggere dall'attestato, si può ragionevolmente presumere che facesse parte delle truppe garibaldine, e non certo dell’esercito invasore, acerrimo nemico dei Savoia, e che combattè fino al 1870 contro le truppe di liberazione, fino alla Breccia di Porta Pia.


Ritiratosi dall’esercito, Vito Montelli si sposò in tarda età con la più giovane Carolina Galli, figlia di Tito e Imperia Hortoller, le cui date di nascita dovrebbero arrivare a sfiorare almeno il secondo decennio dell'Ottocento se non qualcosa più indietro, almeno secondo quanto si può desumere dalla data di nascita di uno dei figli. Tito ed Imperia ebbero infatti tre figli, Ignazio (1841-1920), Nazareno e Carolina.

Questa è la genealogia della famiglia Galli ricostruita dalla nipote, anche lei chiamata Carolina.

Dal fratello maggiore della mamma Carolina, Ignazio Galli (Velletri, 31 luglio 1841- 10 Febbraio 1920), le giovinette ereditarono il titolo di contessa, non sappiamo per quali vie traverse; costui era un sacerdote, canonico in Velletri, doveva essere un tipo particolare: professore al liceo di matematica e fisica, grecista e latinista, le leggende familiari tramandano che fosse uomo coltissimo, astronomo e inventore.

A casa della figlia di Matilde, anche lei chiamata Carolina detta Carla, fino a pochi anni fa c’era un grosso armadio misterioso, pieno di oggetti appartenuti al prete.
 Tale titolo nobiliare passò alle sorelle e morì con loro.



Questa è la tomba dello zio Ignazio, sita al Verano, sulla cui lapide vi è inciso:

"Sacerdote esemplare
professore sovrano
di Scienze Naturali Matematiche e Fisiche
Indagatore acuto degli astri
fu caro allievo di Angiolo Secchi
vissuto onesto e buono..."


Vito e Carolina ebbero due figlie: la primogenita Giulia, che sposerà un medico, Ottaviano Corona, e la nostra Matilde.


Non si hanno notizie certe della sua infanzia e giovinezza in provincia ma, secondo chi la conobbe da donna, ebbe un’educazione accurata, adatta ad una giovinetta bene dell’epoca: leggeva e scriveva con garbo, praticava tutte le arti domestiche come cucito e ricamo, amava la cultura.

Adorava la musica classica e in particolare l’opera, frequentava i teatri con passione, almeno fino a quando potè: possedeva tutti i libretti d’opera e conosceva benissimo le arie più famose, passione che non l’abbandonò mai anche quando, molto più tardi, smise di frequentare i teatri e ascoltava musica dal giradischi.

Dalle fotografie d’epoca, possiamo capire che non fosse proprio una bellezza: viso pieno, un po’ squadrato, capelli castani lisci raccolti in alto, labbra sottili; aveva però degli occhi intensi, una figura morbida, non priva di una certa grazia.


Come ogni signorina o signora di un certo grado sociale, portava abiti lunghi, di tessuto fine, amava ornarsi di bei gioielli, ed indossava cappelli a falda larga. Indossava sempre calze di seta e guanti fini. Questa eleganza innata non l’abbandonò mai, per tutta la vita, anche quando le gonne si accorciarono e i cappelli con le piume finirono fuori moda.

Chi la conobbe, racconta che amava circondarsi di cose belle, oggetti artistici, porcellane, di biancheria preziosa, come un porta calze in seta paglierina con nastri in raso giunto fino a noi, che serviva a contenere le fini calze di seta che si portavano all’epoca e senza cui una vera signora non sarebbe mai uscita, neanche d’estate.




All’incirca nei primi anni del Novecento, forse il 1903 o 1904, non più giovanissima, conobbe Ermenegildo De Lazzaro, chiamato familiarmente Mario: un militare di carriera, come il padre, di ottima famiglia, possidenti terrieri, sempre in Velletri.

Dalle foto arrivate fino a noi appare con un bel giovanotto bruno, occhi azzurri, il portamento altero, capelli scuri impomatati, viso asciutto con zigomi affilati, con eleganti baffi all’insu, e le leggende familiari tramandano che fosse proprio un bell'uomo. Era più giovane di lei di quattro anni, la data di nascita risalendo al 1883, almeno secondo le cronache.


Nell'immagine in cui sono insieme, probabilmente già sposati, una fotografia presa in uno studio professionale con scenografia esotica, lei indossa un elegante abito chiaro, borsetta di seta ed enorme cappello con piume, lui indossa un elegantissimo cappotto scuro, scarpe di pelle a due colori, con guanti e tuba di seta.


I due si fidanzarono e, come si usava all’epoca, il fidanzamento fu lungo e a distanza, perché Mario fu trasferito presto ad Ancona per la sua carriera militare, ma non fu un’unione di convenienza: i due giovani cominciarono a scriversi regolarmente, una cartolina quasi tutti i giorni, magari una frase, due parole, per quattro lunghi anni, in attesa di unirsi in matrimonio.
Le cartoline sono arrivate fino a noi, con tutto l’album in cui lei le raccolse; delle numerose lettere che ivi vengono citate, purtroppo, non ne è rimasta traccia.

Queste cartoline, amorosamente conservate tra gli arabeschi dell'album, sono state fondamentali per ricostruire la storia dei due innamorati.

Alla prossima puntata, col carteggio di Matilde e Mario e il resto di questa romantica storia ed il suo tragico epilogo!

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